l 1° settembre 1925 esce su “LA LETTURA” – Corriere della Sera Editore (Anno XXV – n. 9) questo articolo dedicato al pavimento del Duomo di Siena. E’ intitolato “LO “SPAZZO” e firmato da Tebaldo Pellizzari
“E’ il pavimento del Duomo di Siena. I Senesi lo chiamano, impiantito e anche spazzo. E ne sono orgogliosi e gelosissimi, tanto che lo tengono coperto da tavole di legno per tutto l’anno e solo nella ricorrenza del Palio di mezzo agosto lo scoprono all’ammirazione dei forestieri. Affrettiamoci dunque a guardarlo. Lo merita davvero. Se v’è al mondo edificio che renda muti di godimento inesprimibile, è la Cattedrale senese: quando, dopo esserci inebriati a contemplarne la facciata, tutta di aureo marmo scolpito, in vetta al colle ventoso (sulla piazza solitaria crescono ciuffi di erba, pigolano i passeri, stridono le rondini e schiere di bimbi folleggiano), si varca la soglia e davanti agli occhi si schiude la iridescente visione delle colonne policrome, degli archi solenni e leggiadri, delle volte stellate, delle prospettive raggianti di mille colori o cupe di arcane penombre, è impossibile trovare una parola che dice la pienezza di stupore che ci affanna. Ippolito Taine paragonò la Chiesa stupendissima ad una immensa rosa fiorita al sole d’Italia. E appena Riccardo Wagner la vide, gli balenò l’idea del tempio favoloso in cui i Cavalieri del Graal celebravano la memoria della Cena di Cristo col Sangue ribollente nel Calice d’oro. E le musiche infinitamente soavi e profonde del Parsifal gli suonarono nell’anima commossa.
I senesi che alla Vergine assunta in Cielo consacrarono la loro città, Sena vetus civitas Virginis, vollero che in onore di Lei sorgesse la cattedrale più bella d’Italia; e per cento anni con infaticabile ardore scolpirono, cesellarono, miniarono il gigantesco diadema. Ma non paghi di esso e temendo che i fiorentini (gli eterni nemici) li superassero con la nuova Santa Reparata, decisero di erigere un Duomo ancora più vasto di cui l’attuale non doveva essere che il transetto. E lo fondarono e ne tiraron su due pareti colossali: ma la instabilità del terreno, le sopravvenute discordie intestine e la pestilenza del 1348 interruppero per sempre la titanica impresa. Allora si pensò d’impreziosire il vecchio edificio con meraviglie d’ogni genere. E ad alcuni maestri d’intaglio venne la ispirazione del pavimento marmoreo tutto animato di figure graffite. Nel 1362 vi si era già posto mano: un foglio d’archivio testifica la spesa di lire undici e soldi sei pagati a lo Schalzello matonaio per matoni che sebero per amatonare lo spazo di Domo intorno all’altare. Sembra accertato che il primo quadro risalga al 1372: l’ultimo è del 1547: quasi due secoli di amore e di fatica geniale intorno al prodigio.
La Chiesa è lunga 89 metri e quaranta: larga, nelle navi minori, 24,37: nella crociera, 54,84. E tutto il pavimento è coperto da 59 quadri che brulicano di migliaia di figure che rappresentano storie bibliche, leggende agiografiche, simboli, allegorie, fantasie, bizzarrie d’inesauribile varietà in mezzo a fregi, ornati, disegni geometrici e motivi ornamentali di sempre nuova e sempre più ricca, complessa, armoniosa e stupefacente bravura. Da principio i quadri si eseguirono graffiando il marmo e applicando nei solchi una miscela di stucco nero: ma perché tale tecnica resultò povera di effetti pittorici e poco resistente all’attrito, si cominciò a intagliare le imagini di marmo bianco sul fondo di marmo nero e si ottennero meraviglie di evidenza espressiva nelle figure e nelle cornici che si fecero di anno in anno più splendide di foglie, di fiori, di frutta, di animali fantastici: con l’andar poi del tempo e col perfezionarsi della pratica, si colorarono artificialmente con processi chimici rimasti segreti, dei tasselli di marmo, si intarsiarono sui lastroni bianchissimi e fu possibile così emulare le magnificenze dell’arte musiva greca, romana e bizantina. Finalmente, nel secolo XVI, Domenico Beccafumi raggiunse il colmo della bellezza, creando, con un sistema tutto suo di commessura di marmi bianchi, bigi e neri, i trentacinque quadri di varie dimensioni di cui egli dette il disegno agli operai della fabbrica, oramai esperti d’ogni risorsa tecnica e d’ogni acrobatismo stilistico. Codesti quadri, che offrirono al Beccafumi la maniera di esprimere, più e meglio che nelle tele e negli affreschi soverchiamente ricalcati sui tipi del Sodoma, tutta la personalità del suo genio fervido, appassionato e imaginoso, chiudono, in una luce d’incomparabile grazia, l’opera del pavimento senese.
Vogliamo farne il giro? Eccoci nell’interno del Duomo in una di queste mattine d’agosto: il sole lo invade a torrenti dalle finestre policrome. E noi, perduti nel miro gurge, direbbe Dante, dell’atmosfera paradisiaca, seguiamo, con gli occhi a terra, le incantevoli figurazioni.
Nelle due navate laterali, dalle porte d’ingresso al transetto, si trovano, cinque per cinque, le dieci Sibille; ognuna è di un artista diverso: furono graffite nel 1482-83: non sono tutte di eguale valore artistico, ma tutte, vivide e suggestive co’ loro emblemi, co’ loro volumi, con le loro maniere esotiche di vesti e di atteggiamenti, spiccano bianche sul marmo nero e paiono bassorilievi animosi. La Persica di Urbano da Cortona e la Libica di Guidoccio Cozzarelli sono le più belle.
Prima di porre il piede sotto la Cupola e nella crociera, andiamo nel centro della navata mediana: un grande quadrilatero chiude una meraviglia purissima: la storia della Fortuna. Ne fece il disegno il Pinturicchio che, lavorando agli affreschi della contigua cappella Piccolomini, volle partecipare alla gloria di concorrere all’opera dello spazzo e ne ebbe il compenso di 12 lire. Come si contentavano di poco quei maestri immortali!
Veniamo al transetto e, dopo avere ammirato con molto piacere, nel braccio destro, le età dell’uomo, deliziosa composizione di Antonio Federighi (1471), l‘Assalonne, pendulo all’albero, di Pietro del Minella (1447) e l’imperator Sigismondo di Domenico di Bartolo, rechiamoci subito, senza fermarci all’esagono, circoscritto dagli agilissimi pilastri della cupola a due dei quali sono addossate le antenne del Carroccio che fu a Monteaperti, nel traccio sinistro: Giuditta che decapita Oloferne e la liberazione di Betulia sono uno stupore di verità, di drammaticità, di movimento: la strage degli Innocenti di Matteo di Giovanni, il Botticelli della scuola senese, non si dimentica più, tanto quella scena furibonda di odio e di amor disperato sotto il leggiadrissimo portico quattrocentesco, è miracolosa di evidenza rappresentativa.
E poi sostiamo a lungamente bearci nell’esagono: è il trionfo del Beccafumi. Ogni chiosa esegetica sarebbe vaniloquio: davanti a tali splendori si tace e, nel gaudioso silenzio, si gusta la felicità di cui solo l’arte sovrana possiede il segreto. Ma non crediate di aver visto i capolavori massimi del Beccafumi. Bisogna cercarli dietro la guida di Giorgio Vasari: « D’intorno all’altar maggiore fece una fregiatura di quadri nella quale incise la istoria del Genesi, cioè Adamo ed Eva che sono cacciati dal Paradiso e lavorano la terra, il sacrificio di Abele e quello di Melchisedech; e dinanzi all’altare è una storia grande di Abraam e questa ha intorno una fregiatura di mezze figure le quali, portando vari animali, mostrano di andare a sacrificarli. Scendendo gli scalini, si trova un altro quadro grande che accompagna quel di sopra, nel quale Domenico fece Mosè che riceve da Dio la legge sul monte Sinai e da basso è quando trovato il popolo che adorava il vitello d’oro, si adira e rompe le tavole nelle quali era scritta essa legge. A traverso della chiesa, dirimpetto al pergamo, sotto questa storia è un fregio di figure in gran numero il quale è composto con tanta grazia e disegno che più non si può dire: e in questo è Mosè il quale, percotendo la pietra nel deserto, ne fa scaturire l’acqua e dà da bere al popolo assetato, dove Domenico fece per la lunghezza di tutto il fregio disteso l’acqua del fiume, della quale in diversi modi beve il popolo con tanta vivezza e vaghezza che non è quasi possibile immaginarsi le più vaghe leggiadrie e belle e graziose attitudini di figure che sono in questa istoria: chi si china a bere in terra, chi si inginocchia dinanzi al sasso che versa l’acqua, chi ne attinge con vasi e chi con tazze ed altri finalmente bee con la mano. Vi sono oltre ciò alcuni che conducono animali a bere con molta letizia di quel popolo. Ma fra le altre cose vi è meraviglioso un putto il quale, preso un cagnuolo per la testa e pel collo, lo tuffa col muso nell’acqua perché bea: e quello poi avendo bevuto, scrolla la testa tanto bene per non voler più bere, che par vivo. Ed insomma questa fregiatura è tanto bella, che per cosa in questo genere non può esser fatta con più artificio; attesoché l’ombre e gli sbattimenti ch’anno queste figure son piuttosto meravigliosi che belli. »
Non aggiungo che una nota: guardate il vecchio che, dietro la figura di donna inginocchiata, tende alla fonte un vaso, e l’altro vecchio che beve curvandosi tutto, nell’ansia spasimosa, sulla ciotola traboccante: guardate la fanciulla che, incrociate le braccia, al seno, adora il miracolo, prima di dissetarsi e poi ditemi quante altre mai volte la sorda materia rispose così alla mano creatrice dell’arte”.
Roberto Cresti
Maura Martellucci
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