Si è alzato ieri il sipario del piccolo teatro della casa circondariale di Santo Spirito. L’inizio è di quelli col botto: ad aprire la stagione 2017/2018 è nientepopodimeno che Emilio Solfrizzi. L’attore di cinema e teatro, di mai celate origini pugliesi, ha ritagliato un po’ del suo prezioso tempo per concedersi, senza una regia e senza un copione prestabilito, ai detenuti di Siena. Tra una prova e l’altra del suo Molière (che ha debuttato al teatro dei Rinnovati proprio nei giorni scorsi) è riuscito dedicare quasi un’ora e mezza ai ragazzi del carcere, che hanno vissuto un’altra esperienza di teatro nudo, di confronto diretto, a stretto contatto con uno dei più poliedrici attori del panorama italiano. Eh si perché l’apertura dell’incontro è di quelle che non ti aspetti. Solfrizzi, prendendo spunto da recenti fatti di cronaca “calcistica” (chiamiamola così), racconta la sua esperienza nel ruolo del padre di Anna Frank. Parla con vera partecipazione della storia del diario più famoso dell’olocausto, delle pagine strappate dai genitori perché rivelatrici di aspetti troppo intimi della piccola Anna, della vergogna per le legge razziali e, soprattutto, per la mancanza di indignazione contro quelle leggi da parte di un’Italia disorientata e complice.
Spiega il dietro le quinte di quel film (Mi ricordo Anna Frank) girato nella “Cinecittà” di Budapest e tutti i retroscena e gli escamotage della produzione e del regista per rendere la pellicola più realistica possibile agli occhi del pubblico. I presenti ascoltano l’attore in uno stato di precario equilibrio tra vivo interesse e umano sconcerto.
Continua a parlare di cinema e questa volta il tono è amareggiato per la situazione di degrado in cui da anni ristagna quello nazionale, lontano dagli anni d’oro dei vari Fellini, Rossellini, etc… e sempre più difficilmente esportabile in realtà diverse dalla nostra. Allora meglio il teatro (realtà tenuta viva anche nel piccolo carcere grazie a un piccolo gruppo di volontari), vero banco di prova per un attore. Niente intermediari o filtri. Niente regia o fotografia che adulteri la performance. Niente attesa per il feedback sulla recitazione. Contatto diretto e immediato con il pubblico.
E contatto diretto e immediato è stato anche ieri pomeriggio. Più che diretto, intimo. Solfrizzi ha raccontato, ha spiegato e scherzato (con frecciatine nel suo immancabile barese) con una platea diversa dal solito. Anche se- ha tenuto a precisare- non era la sua prima esperienza in un istituto penitenziario. Qualche anno fa era andato a leggere delle facezie di papa Giovanni Paolo II (si avete capito bene!) a Rebibbia. In carcere insomma già c’era stato. Ma è recidivo. E alla prima occasione ci è cascato di nuovo.
Come spesso accade in queste circostanze, il tempo è volato via in fretta e l’attore era atteso dalla prova del pomeriggio, fondamentale per uno spettacolo alla sua seconda rappresentazione. Così, dopo quasi un’ora e mezza a completa disposizione degli ospiti di Santo Spirito, saluta veloce e scende dal palco per guadagnare l’uscita dove ad attenderlo, puntuale, c’è un taxi. Il sentito applauso dei presenti è quasi una violenza per un grande attore (e un grande uomo) che in punta di piedi era entrato e in punta di piedi (come un ladro, potremmo dire) stava andando nuovamente via. Non era una pièce teatrale, un monologo. Non stava recitando. Era semplicemente se stesso, naturale e spontaneo come solo un barese sa essere.
Prima di andarsene ha detto: “Ci sono vip che, una volta conosciuti di persona, lontani dai loro personaggi e dalle loro maschere, risultano irriconoscibili agli occhi dei loro fans.”
Il Solfrizzi di questo pomeriggio anche dal vivo- vi posso assicurare- è stato divertente, interessante, profondo e umano.
Il carcere di Santo Spirito non poteva iniziare in un modo migliore la nuova stagione.
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