Riceviamo e pubblichiamo integralmente la lettera che ci arriva da un medico che lavora per il Contact Tracing Covid e che racconta, toccando le corde più profonde, la difficoltà emotiva che c’è nello svolgere questo servizio fondamentale.
“Che cos’è il Contact tracing? La risposta sembra scontata, ma dopo soltanto 15 giorni di lavoro, la lettura che mi viene di fare è più complessa e articolata.
È un servizio svolto dal Dipartimento di Igiene e Prevenzione di Siena già da inizio pandemia, ultimamente potenziato da un gruppo di medici, di cui faccio parte, con lo scopo di monitorare, contenere e isolare il più possibile la circolazione del virus. Ogni giorno arrivano i risultati dei tamponi, chiamiamo le persone a cui dobbiamo dare il responso, spieghiamo loro la procedura di quarantena che dovranno seguire e prendiamo i nominativi di coloro con cui sono stati a contatto nel periodo considerato a rischio, prescrivendo a quest’ultimi il tampone da effettuare, passati i dieci giorni di isolamento domiciliare.
Tutto questo è solo una parte, fondamentale, del nostro lavoro, ma c’è anche un’altra parte di cui mi sento di voler portare testimonianza. Ci siamo noi operatori con i nostri vissuti e ci sono loro dei numeri, troppi, che corrispondono ad un nome e ad ogni nome corrisponde una storia. E allora cosa fai? Cerchi di entrare in punta di piedi perché sei consapevole che quella telefonata nessuno vorrebbe riceverla; sai che il lavoro che stai svolgendo è importante, ma allo stesso tempo vivi sentimenti contrastanti, ti senti un po’ come un persecutore alla ricerca di informazioni che entra nell’intimità delle persone, nella loro vita, nelle loro abitudini. E allora ascolti, ma non solo le informazioni utili per l’inserimento dei dati, ascolti anche altro, ascolti lo smarrimento, lo sconforto, la paura, la rabbia, le lacrime, la colpa.
Mi ha molto toccato il senso di colpa vissuto da molti, la colpa di essersi contagiati, la colpa di aver contagiato; ricordo un’insegnante che, in lacrime, si preoccupava dei suoi bambini, si sentiva responsabile di un loro possibile contagio, ma anche di doverli costringere a casa in isolamento, ad una didattica a distanza così tanto temuta dalle famiglie. Ma non solo la colpa, anche la paura di chi sa di avere il virus e chiede rassicurazioni, soprattutto anziani, che sanno essere più a rischio di complicazioni. Persone preoccupate, che vedono il mondo crollarli addosso perché hanno famiglia, figli e un lavoro che temono di perdere o che si dovrà fermare per troppo tempo, considerando già i mesi passati di lockdown. Un altro momento emotivamente difficile da affrontare è la telefonata ai contatti stretti di chi è positivo, che nella maggior parte delle volte sono totalmente ignari della cosa e devi comunicare loro che da quel momento sono in isolamento per dieci giorni in attesa poi di fare il tampone. È qui che trovi la rabbia mista a sconforto soprattutto in quelle situazioni in cui in famiglia ci sono persone fisicamente più deboli; un nonno preoccupato per la sua nipotina prematura, un marito che al momento della telefonata si trovava in ospedale ad accompagnare la moglie al ciclo di chemioterapia; una madre venuta da un’altra regione per un controllo oncologico della figlia che ha dovuto saltare la visita…come non comprendere la loro rabbia!
Ecco, io vorrei ringraziare tutte queste persone e quelle che ancora non ho sentito e che sentirò per la loro pazienza, per la loro collaborazione, per le loro storie di cui ci rendono partecipi, per la fiducia che dimostrano, per la gentilezza e l’onestà nel metterci a disposizione informazioni personali, ma credo con un intento comune, collettivo, di superare un momento così doloroso”.
Dott.ssa Monica Perozzi