foto di Francesco Laezza
Siena non è una città in cui cerchi il cielo, il cielo, piuttosto, lo trovi. Ti viene incontro all’improvviso, inaspettatamente, così come succede a volte con la felicità, a volte con l’amore. Attraversi una delle porte cittadine, percorri una strada del centro, un vicolo, un chiasso, e il tuo sguardo e la tua mente si abituano a muoversi parallelamente al suolo. Ogni tanto, certo, ti viene da alzare gli occhi, ma quello che rinvieni, alla tua destra, alla tua sinistra, due, tre metri sopra la tua testa, sono mura, sono finestre, sono pigre veneziane appena appena piegate dal vento. Riprendi allora a camminare, incroci occhi e incroci silenzi, ed entrambi ti trascinano lontano, nel tempo o nello spazio, dove ancora è possibile rinvenire i fantasmi di chi ti fece credere, illudendoti, che la vita fosse bella e di chi ti gettò nell’abisso del disincanto. Basta, però, un suono inopportuno, basta una voce che provenga da qualche angolo della strada, a richiamarti al presente, dove il tuo sguardo e la tua mente si sono abituati a muoversi parallelamente al suolo, quasi che tutto fosse orizzontalità, e la verticalità neppure esistesse.
Poi. Poi, però. D’un tratto. Come “i gialli dei limoni” in Montale, come il “canto di cicale” in Sbarbaro, ti sorprende il cielo. Succede quando la “flânerie” ti conduce in una piazza della città o in uno degli Orti o in uno dei punti più elevati di Siena. Sollevi lo sguardo in alto, o ti distendi sull’erba, e ti accorgi di quanto sia bello il cielo che abbraccia la tua città, di giorno come di notte, quando risplende d’azzurro e d’oro, quando è tramato di stelle. Questo stesso cielo fu osservato da migliaia e migliaia di altri uomini prima di noi, di altri figli di questa città meravigliosa, che vi rinvennero non solo frammenti di bellezza, ma anche gli insegnamenti e le regole della migliore “ars aedificandi”. E’ questa, in sintesi, la tesi al centro del saggio di Mario Tassoni “Siena la città delle stelle”, dove il cielo, coi suoi punti luminosi (con le sue costellazioni), diviene un modello – un archetipo – di tessuto urbano. Quello che segue è uno dei passi che meglio chiariscono l’idea.
“Il Duomo di Siena è un modello del cosmo. Al suo interno l’uomo ha riordinato il suo microcosmo nello spazio artificiale dell’architettura disegnando il tempo e l’armonia. La sua architettura e le sue opere d’arti sono il riferimento di concetti astratti, con forme riconoscibili, che simbolizzano valori culturali e raccontano il modo di concepire l’universo. Attraverso la geometria, che riesce a misurate la terra e il cielo, il progetto unisce il microcosmo artificiale al cosmo naturale, con un ordine nel quale le forme richiamano gli elementi fisici dello spazio e lo scorrere ciclico del tempo. Le volte a crociera delle navate, decorate da un azzurro stellato, sono esse stessi rappresentazione dell’universo come pure le varie guglie, di svariate forme che si proiettano verso l’alto cercando una relazione con il cielo. Proprio attraverso due imponenti torri terminanti con guglie, dove all’interno sono collocate due scale a chiocciola, nascoste che seguono il loro sviluppo verticale, si accede verso la volta celeste del Duomo. Si tratta della Porta del Cielo apparsa in sogno a Giacobbe, la cui cima raggiungeva il Paradiso. Nel sogno Dio promette a Giacobbe la terra sulla quale egli stava dormendo e un’immensa discendenza. Al suo risveglio Giacobbe esclamò: “Questa è proprio la casa di Dio, questa è la Porta del Cielo”. Una volta giunti in alto si potrà osservare le tarsie marmoree che disegnano la pavimentazione del Duomo: un labirinto iniziatico, una narrazione del ciclo vitale ove sono celati mistero e verità superiori in una logica legata al neoplatonismo ermetico.”
a cura di Francesco Ricci
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