Era il 2009. Un anno importante sotto molti punti di vista, un anno che ha cambiato tanto e su più fronti. Anche per l’economia. Resterà negli annali. Era il 2009 e Luigi Borri, imprenditore senese e all’epoca presidente di Confindustria, scriveva questo intervento. Lo abbiamo ritrovato e lo abbiamo soprattutto trovato attuale. Così ci è venuto in mente, perché le parole non vadano al vento, che sarebbe stato interessante pensare ad una rubrica settimanale pungente e realistica, che parli di economia e finanza affrontando l’attualità e cercando di capire come ciò che accade nei mercati internazionali possa influire direttamente sulla nostra vita di ogni giorno. Parte allora oggi ‘la gassa’, rubrica settimanale curata da Luigi Borri che oggi – lasciati da tempo i panni confindustriali – rimane però uno dei pochi punti di riferimento validi e competenti per l’economia e la finanza, del territorio toscano ma non solo. Partiamo allora dal 2009, guardate quanto ancora è reale questo intervento.
Se c’è qualcosa che la crisi ha espresso in maniera inequivocabile, è che il sistema finanziario che a lungo si era auto assolto producendo carta e utili fittizi, non ha futuro.
E’ per questo che una riforma di quello stesso sistema finanziario diventa una priorità assoluta e non solo dal punto di vista economico ma anche, forse soprattutto, etico.
Perché la finanza si è mossa fino ad oggi in una dimensione al di fuori della realtà: riducendo il tempo e lo spazio per creare guadagni su guadagni, come se il tempo e lo spazio, che governano l’economia reale da sempre, non avessero più senso, in una logica tesa alla massimizzazione del profitto e della rendita nel minor tempo possibile. Da questo hanno tratto vantaggio i players finanziari, ben consapevoli che in un giorno si poteva vendere o comunque negoziare una quantità di beni che la nostra economia avrebbe forse prodotto o acquistato in anni. Di qui un risultato che ha visto la creatività finanziaria occupare uno spazio non suo, togliendolo di fatto all’economia reale e al manifatturiero e a tutti coloro che, in definitiva, producevano beni e servizi a costanza di spazio e tempo.
Ma era chiaro che il sistema delle leve finanziarie, a lungo abusato soprattutto nei paesi anglosassoni avrebbe dovuto prima o poi pagare il conto perché per onorare le proprie obbligazioni nei confronti degli investitori, doveva rientrare entro il perimetro degli scambi concreti e del denaro liquido: ciò non poteva avvenire poiché la dilatazione spazio-temporale dell’economia creativa, labile e incerta, ha cozzato clamorosamente con quella reale che, basandosi su criteri di tempo e spazio certi e misurabili, non poteva avere le stesse performances dell’economia virtuale ed era cresciuta in maniera esponenzialmente maggiore. Questo, spiegato in termini molto semplici, ha portato ad un collasso del sistema debitorio in quanto si è voluto, scientemente, fondare lo sviluppo dell’economia e dei consumi sul debito e non sul reale valore di quello che veniva prodotto.
Ma c’è di più, e qui si tocca l’àmbito etico: per troppo tempo si è creduto che l’economia vera fosse quella “finanziaria”, quella “virtuale” e in qualche modo abituato tutti i cittadini si sono abituati a vivere al di sopra delle proprie possibilità. La gente ha creduto che questa situazione fosse quella dello sviluppo “normale” e che i mutui per le case come i finanziamenti al consumo facilissimi da ottenere, fossero indipendenti dalla possibilità di ognuno di produrre reddito. Le stesse nuove generazioni si sono sedute su una posizione dove “il tutto dovuto” diveniva la normalità, poiché acquistabile apparentemente senza sforzo. La virtualità finanziaria era così diventata la normalità, anche per i Governi e questo ha determinato una noncuranza nei confronti di tutte quelle misure che potevano e dovevano essere prese per ridurre la spesa improduttiva e voluttuaria sia delle famiglie che degli Stati.
E a tale situazione si è cercato rimedio nell’unico errore che avrebbe dovuto essere evitato: invece di accompagnare in maniera dolce i flussi finanziari dal “virtuale” al “reale”, favorendo imprese e famiglie, si è messo in fretta un bavaglio enorme – anche alle banche – con l’introduzione di Basilea 2 (e in seguito Basilea 3). E non sono state regolamentate in maniera rigida speculazioni e transazioni. Si è creata quindi, all’interno dello stesso sistema finanziario, un’ulteriore divisione: un sistema “controllato” – quello delle banche – ed un sistema potenzialmente e relativamente fuori controllo – quello degli speculatori, che hanno continuato a produrre debito su debito.
E’ per questo che se vogliamo ripartire occorrerà farlo con un sistema finanziario che si sviluppi su tempi e metodi che vadano di pari passo con il manifatturiero, l’artigianato ed il commercio: senza sorpassarli ma assecondandoli, guardando ai reali progetti di impresa. La zona Euro è certamente in pericolo. Gli spreads stanno aumentando anche in virtù del fatto che gli operatori sui mercati finanziari intendono difendersi dal cosiddetto “rischio di cambio”. Il che si traduce nel chiedere tassi più alti sui prestiti di questi Paesi non solo perché gli operatori prevedono la possibile insolvenza ma anche e sopratutto perché temono che alcuni di questi Paesi si vedano costretti ad abbandonare l’Euro per svalutare le rispettive monete ed aumentare la competitività, cercando in questo modo di rilanciare domanda e produzione. Questa opzione comporterebbe anche un deprezzamento del valore dei titoli dei Paesi che svalutano. Ecco perché gli operatori sono disposti a tenere quei titoli solo a tassi d’interesse più alti. Che dunque ci sia un rischio di deflagrazione della zona Euro ce lo dicono già ora i mercati. E noi dobbiamo fare finanza come si era costretti a farla per ricostruire società e mercati, nel Dopoguerra o anche dopo la crisi del 1929. Perché che la situazione attuale sia paragonabile alla grande depressione degli anni Trenta, non sono certo io a dirlo ma grandi economisti sulla base di dati e analogie concrete. E lo stesso Presidente uscente della Banca Centrale Europea, Trichet, ha affermato di recente che questa è senza dubbio la crisi economica più grave dal dopoguerra. Non sarà perché, con ogni probabilità, una guerra c’è stata comunque (magari tuttora in corso nei confronti dell’Eurozona), anche se invisibile?
Tornando però a quel periodo storico, non posso che chiudere con le parole di due grandi uomini che hanno segnato il passo in quegli anni bui e che danno un forte segnale di coraggio, contro la rassegnazione, Roosevelt e Ford: “Gli ostacoli sono quelle cose spaventose che vedi quando togli gli occhi dalla mèta”, diceva il fondatore dell’omonima casa automobilistica. Mentre Roosevelt, nel discorso che inaugurò il suo “new deal”, disse qualcosa che mi piacerebbe ognuno facesse propria: “So, first of all, let me assert my firm belief that the only thing we have to fear is fear itself”. (Quindi, prima di tutto, lasciatemi esprimere la mia ferma convinzione che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa).
Luigi Borri (22 maggio 2009)
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