Esiste un mondo in movimento che si stacca sempre di più dalla politica e dalla sua “moderna” concezione. La differenza di passo fra economia e governo della res publica ha raggiunto in questi ultimi periodi una tale diversità che ben difficilmente, con questi parametri, potrà riconciliarsi e re-incontrarsi: è come se due ciclisti, nella stessa tappa del giro d’Italia, dopo essere partiti, procedessero l’uno alla media di 45 e l’altro a quella di 20 chilometri all’ora. Difficile che possano parlare, discutere o avere un qualunque tipo di vicinanza. Figuriamoci poi se c’è da passarsi la borraccia, come dovrebbe avvenire in caso di bisogno fra il mondo di chi governa e quello di chi fa impresa e lavora. C’è a malapena sopportazione, la politica ancorata al concetto dell’imprenditore-furbetto e l’imprenditore a quello della politica-ladrona.
Facciamo chiarezza. Premessa e particolare non da poco è il fatto che chi governa lo fa sì con la legittimazione del popolo ma per il popolo: questo assunto sembra essere sempre più dimenticato. Particolarismi e personalismi hanno ormai travolto il concetto di dialettica politica, buongoverno e interesse supremo.
La cosa è tanto più grave quando si pensi che i bisogni sono conosciuti e conoscibili: esiste quindi malafede nel NON affrontarli e nel NON volerli risolvere.
Chi governa sa che il mondo di chi lavora, delle partite iva, degli artigiani e delle imprese ha bisogno di riforme fiscali, più energia, più innovazione, più credito e meno burocrazia, meno spesa pubblica , meno sprechi e meno cavilli: tutto all’opposto di quello che sta avvenendo nel nostro contesto sempre più pericolosamente e deviatamente burocratico, autoreferenziale e spendaccione.
Sembra quasi normale ed accettato, nella nostra Italietta, che ogni nostra attività lavorativa sia sottoposta ad una continuo ed intenso approccio “processuale” che spesso tende a negare anche i più semplici e canonici diritti sanciti dalla carta costituzionale. Ma tant’è: nessuno ci fa più caso e, per assuefazione, fa spallucce e non denuncia. Anche divieti di sosta ed autovelox sono divenuti strumenti di tassazione e non di educazione.
Il popolo chiede diminuzioni alla spesa e per tutta risposta non viene minimamente preso in considerazione il taglio agli sprechi ed alle posizioni politiche di rendita tanto è che nessuna riforma (seria) è stata fatta in tal senso. E’ di qualche giorno fa la pubblicazione dei vitalizi della Regione Toscana (decine di migliaia di euro al mese) appannaggio di soggetti che, avendo fatto un po’ di politica -non bene, fra l’altro, visti i risultati – si sono ritirati in buon ordine con diarie che variano dai mille ai cinquemila euro mensili. Finché campano. E il nostro popolo si “imburbisce”, inghiotte amaro.
Spesso si arriva persino a far accettare mediaticamente ed a far passare come giusto il concetto che prima si può tassare il lavoro dipendente e poi, semmai, si possono eseguire tagli sulla spesa pubblica, spesso improduttiva e dannosa.
Oltre al danno la beffa: basta andare su internet che troviamo una lista di enti “inutili” che, almeno fino a pochissimo tempo fa, resistevano imperterriti a crisi economiche, tsunami finanziari, cambi di governo e calamità naturali. A metà elenco il sorriso ha prevalso, facendo però accrescere, un istante dopo un moto di rabbia e delusione.
Gli enti dei quali gli Italiani non possono fare a meno, secondo il nostro governo, hanno varia natura ed estrazione: si va dalla Cassa mutua nazionale di malattia per i lavoratori addetti ai quotidiani, alla Cassa nazionale malattia gente dell’aria per passare dalla Fondazione figli degli italiani all’estero, all’Istituto nazionale per le case degli impiegati dello Stato e finire con l’Ente nazionale lavoratori rimpatriati e profughi (ENLRP).
Pare resista anche l’Associazione nazionale controllo combustione: credo per vigilare sugli effetti del giramento eolico che sempre più aleggia quando si leggono queste cose.
Lo stesso Stato che non teme di aumentare accise e addizionali, che continua a dimenarsi nel proprio, inutile, egocentrismo da tassazione si è dimenticato che poteva iniziare dal semplice: e cioè tagliare ciò che è inutile e ridurre i costi.
Come si fa in ogni azienda, come purtroppo, hanno già fatto le nostre famiglie.
Anzi, ancor a maggior danno (… della beffa tutto sommato ci interesserebbe poco) aumenta i carichi di controllo e di imposizioni sulle aziende artigiane ed industriali che, a cascata, immobilizzano l’elasticità sociale verso l’aumento delle retribuzioni da lavoro dipendente. Ma questa cosa sembra non essere una priorità: “chissenefrega, le imprese ce la faranno da sole, saranno problemi loro…”.
Allo stato dei fatti ogni nostra attività è costantemente e giornalmente sotto processo, in una unica ed interminabile udienza che inizia il giorno della costituzione dal notaio e che non trova mai fine.
Questo approccio processuale, insidioso ed infido, è fatto da minimo tre gradi di giudizio (comuni, organismi periferici e regioni) che oltre al governo hanno a vario titolo il potere di determinare e dettare i tempi di “come dobbiamo fare cosa” ed a quali costi. Ognuno di noi ha presenti non solo i controlli ma anche la congerie di adempimenti che siamo costretti a subire senza che possano portare, se non in rari casi, un minimo beneficio per le nostre attività. Spesso capita, poi, che la stessa cosa (per esempio le emissioni in atmosfera, tanto per dirne una) siano soggette a tutti e tre i gradi di controllo e di giudizio, determinando problemi interpretativi e causando costi enormi.
Tale è l’ingerenza che anche lo stesso diritto di proprietà, così come è stato canonicamente definito dal diritto Romano, il famoso dominium ex iure Quiritium, viene sempre più illegittimamente scalfito da tasse e balzelli che ne sanciscono in realtà la fine, contrariamente allo spirito del codice civile che ne voleva limitare non la portata giuridica ma l’effettivo utilizzo (in tal senso basta pensare all’ICI che, in sintesi, ci fa pagare nei confronti del pubblico un affitto su un bene che abbiamo già acquistato).
Tutto ciò finalizzato a cosa? A oliare e far funzionare la mastodontica spesa della pubblica a amministrazione finanziare le inefficienze dell’apparato burocratico: un sistema che si deve autoalimentare per trovare uno sbocco di mercato e che provoca danni incalcolabili alla nostra economia.
Lavorare in queste condizioni costringe gli imprenditori italiani, soprattutto i piccoli, ad operare con livelli di eroicità non riscontrabili in nessuna altra parte dell’Europa occidentale.
Partiamo dalla definizione di piccola impresa: per la Ue sono quelle che occupano meno di 250 persone e che hanno un fatturato annuo non superiore ai 50 milioni oppure un bilancio che non supera i 43 milioni. Nell’Europa corrispondono a queste caratteristiche 23 milioni di aziende, che danno lavoro a 75 milioni di persone e rappresentano il 99% di tutte le imprese. La Cgia calcola che le piccole imprese italiane, per assolvere ai quindici diversi pagamenti richiesti dal governo italiano, consumino 258 ore di lavoro l’anno e versino una quota pari al 68,6 per cento degli utili realizzati. Se invece il calcolo viene fatto dal versante del lavoro, gli artigiani assicurano che il costo medio della burocrazia per addetto è di 1.200 euro l’anno, 1.500 se l’azienda ha meno di 15 dipendenti. Da qualsiasi punto si vogliano leggere le cifre, la situazione dell’Italia è perdente: negli altri Paesi europei si paga di meno. Se la percentuale delle tasse sugli utili per le piccole imprese tricolori supera il 68 per cento, in Francia è al 65, in Germania al 48, in Gran Bretagna al 37. Una battaglia sulla competitività impari, che penalizza ancora di più le aziende che si affacciano sui mercati esteri.
E questo è il contesto sul quale ci dobbiamo muovere… Sarà il caso di cambiarlo?
Luigi Borri
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