Quando il gioco del calcio incontra la letteratura, un fuoco inestinguibile arde nell’anima e brucia la vita e il tempo. Cos’altro è, infatti, questo incontro, se non il sovrapporsi, l’incrociarsi, il potenziarsi vicendevole di due passioni, che, proprio perché passioni (dal latino “passion(em)” che rimanda al verbo “patior”, “sopportare, patire”), il soggetto può solamente subire, non governare né tantomeno dominare? Sebbene apparentemente distanti, il calcio e la scrittura – al pari dell’amore, dell’impegno politico orientato verso l’etica della convinzione e non verso l’etica della responsabilità, la vocazione artistica – si configurano allo stesso modo come spazi eversivi rispetto alla norma comunemente accettata, che accoglie e ammette solo ciò che è regola, ordine, controllo, fine, intelletto, mercato: in breve, ciò che non è passione. E’ questa la ragione autentica, io credo, capace di spiegare come mai tanti scrittori siano stati anche giocatori di calcio, spettatori, tifosi. Ognuno di loro, poi, ha interpretato questo gioco a modo proprio, attribuendogli significati e valenze originali.
Ad esempio, Eduardo Galeano, ma la stessa cosa potrebbe dirsi di tanti protagonisti della letteratura latino-americana del XX secolo, ha letto il calcio come una forma di opposizione al potere, Carlos Drummond De Andrade come sorgente inesauribile di illusioni e d’allegria, quell’allegria contagiosa che le giocate di Garrincha generavano tra la gente, Osvaldo Soriano come splendida espressione di arte popolare, Pier Paolo Pasolini come l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo (“è rito nel fondo, anche se è evasione”).
Un elenco, questo, al quale è ora possibile aggiungere, in ambito italiano, accanto ai nomi di Saba e Sereni, di Volponi e Soldati, di Giudici e Benni, anche quello di Riccardo Lorenzetti, il quale e ci aiuta a rinvenire, col suo “La libertà è un colpo di tacco”, non solo frammenti della storia politica brasiliana della seconda metà del Novecento o dimenticate memorie, carissime a noi Italiani, del Mondiale di Spagna del 1982, ma anche quella leggerezza, quella imprevedibilità, quella magia, che il gioco più bello del mondo possiede. Quello che riportiamo qui di seguito è l’ “incipit” del libro.
“Socrates e Dino Zoff. Due personaggi più da romanzo che da futebol. Di quelli che piacevano tanto al “Cardellino di San Paolo”, il giornale più off della città quando la parola off non era stata ancora declinata nel vocabolario. Off inteso come una cosa “fuori”… fuori dagli schemi, fuori dal coro, fuori persino dalla logica. “Il Cardellino”, con quella dicitura sotto il titolo che era il più palese incoraggiamento a non leggerlo: “periodico di cultura sindacale brasiliana”. Una definizione così criptica e così scoraggiante. Che qualcuno si avventurasse in edicola per leggere qualcosa di inerente alla “cultura sindacale brasiliana” significava avere una visione fin troppo ottimistica della vita. E una fiducia verso il prossimo ai limiti dell’incoscienza, come i tifosi del Messico che sono sempre convinti di avere la squadra giusta per vincere il Mondiale di calcio e se ne ritrovano una buona giusto per vincere le risse a fine partita. Eppure “Il Cardellino” era, a quei tempi, una piccola istituzione. Perché era uno dei pochi giornali, se non l’unico che, pur nella piccolezza, non le mandava a dire. Che faceva le pulci, che mugugnava, che non era mai soddisfatto. Che chiamava ladri i ladri e gli dava un nome e un cognome”.
a cura di Francesco Ricci
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