
Venerdì 7 marzo, in occasione dell’appuntamento dei “Venerdì di Siena” dedicato a “Il romanzo giallo: omaggio ad Andrea Camilleri nel centenario della nascita”, ci sarà a parlare, insieme allo scrittore e giornalista Massimiliano Bellavista e al docente di Letteratura italiana comparata dell’Università di Siena Riccardo Castellana, anche Andrea De Luca, grande esperto del genere giallo. Quella che segue è l’intervista da lui rilasciata a Massimiliano Bellavista.
La scienza, la morte, gli spiriti. Un libro che sorprende… com’è nata l’idea?
L’idea di questo libro è nata un po’ per curiosità personale e un po’ per esigenza intellettuale. Da tempo mi chiedevo perché, quando si parla di romanzo noir o poliziesco, si finisce sempre per guardare all’estero: Poe, Doyle, Christie… tutti nomi imprescindibili, certo, ma possibile che in Italia non ci fosse nulla di paragonabile? Eppure il nostro paese, tra Otto e Novecento, viveva un fermento culturale straordinario, un’epoca in cui scienza e mistero si intrecciavano continuamente.
Mi sono reso conto che c’era una storia ancora tutta da raccontare. Da un lato, l’entusiasmo per il progresso scientifico, per la criminologia nascente, con figure come Cesare Lombroso che cercavano di “leggere” il delitto come un fenomeno naturale, quasi biologico. Dall’altro, il fascino per l’occulto, per lo spiritismo, che non era solo materia per salotti borghesi, ma un vero e proprio terreno di esplorazione intellettuale. Tanti letterati, alcuni illustri, erano affascinati dall’aldilà e partecipavano a riti medianici.
Ecco, mi sono chiesto: cosa succede quando questi due mondi si incontrano? Nasce un nuovo modo di raccontare il mistero, ed è proprio lì che prende forma il romanzo noir all’italiana. Un genere che non si limita a indagare su chi ha commesso un crimine, ma scava nei perché più profondi, spesso legati a tensioni sociali, traumi personali, paure collettive.
Man mano che approfondivo la ricerca, mi sono accorto che dietro ai grandi nomi internazionali c’erano autori italiani che non solo tenevano il passo, ma in alcuni casi anticipavano addirittura certe tendenze. Penso a Francesco Mastriani, che già negli anni ’50 dell’Ottocento scriveva romanzi come Il mio cadavere, un giallo ante litteram. Oppure a Emilio De Marchi, che con Il cappello del prete ha creato un noir dalle forti implicazioni morali.
Da lì, il passo successivo è stato naturale: ricostruire questo percorso, collegando i fili tra scienza, morte e spiritismo, per mostrare come il giallo italiano non sia nato come semplice imitazione di modelli stranieri, ma come espressione originale di un’epoca in cui la ragione e il mistero convivevano fianco a fianco.
In fondo, il libro è proprio questo: un viaggio alle origini di un genere che pensavamo di conoscere bene, ma che, visto da una prospettiva italiana, riserva ancora molte sorprese.
Spiritismo e nascita della lettura ‘gialla’: quale il nesso profondo?
A prima vista, spiritismo e letteratura gialla sembrano due mondi distanti: da una parte le sedute medianiche, i tavolini che si muovono, i messaggi dall’aldilà; dall’altra la razionalità fredda e metodica dell’investigatore che smonta ogni mistero con la logica. Eppure, se si guarda più da vicino, ci si accorge che questi due ambiti condividono molto più di quanto si pensi.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il positivismo dominava il panorama culturale. La scienza sembrava in grado di spiegare tutto, anche i comportamenti umani. Nasceva la criminologia, che studiava i tratti somatici dei criminali e cercava di catalogare il male come si fa con una specie
animale. Ma proprio mentre la scienza avanzava, cresceva anche il bisogno di esplorare ciò che restava fuori dalla portata del microscopio e del bisturi: l’anima, l’aldilà, il mistero della morte.Lo spiritismo, in questo contesto, non era solo una moda, ma quasi una forma di indagine parallela. Le sedute spiritiche diventavano dei veri e propri “laboratori” dove si cercava di applicare il metodo scientifico a fenomeni inspiegabili. Non è un caso che molti intellettuali e scrittori dell’epoca, come Luigi Capuana, fossero attratti dallo spiritismo proprio perché offriva uno spazio intermedio tra razionalità e intuizione.
E qui entra in gioco la letteratura gialla. Il detective diventa una sorta di medium laico: come un investigatore dello spiritismo, raccoglie indizi invisibili, interpreta segnali che sfuggono agli occhi comuni, mette insieme pezzi di realtà che, presi singolarmente, non hanno senso. Pensiamo ad Auguste Dupin di Poe o a Sherlock Holmes: il loro metodo di indagine è quasi medianico, basato su una sensibilità che va oltre la semplice osservazione.
In Italia questo legame è ancora più evidente. Autori come Mastriani e Capuana scrivevano in un contesto culturale impregnato di spiritismo. I loro romanzi non si limitavano a raccontare un crimine, ma esploravano il confine sottile tra razionalità e occulto. Non era solo questione di scoprire l’assassino, ma di capire cosa si nascondesse dietro il crimine: un trauma, un’ingiustizia sociale, a volte persino una “maledizione” simbolica.
In fondo, il vero nesso tra spiritismo e romanzo giallo sta proprio qui: entrambi cercano di dare un senso all’ignoto, sia che si tratti di uno spirito che bussa alla porta, sia che si tratti di un delitto che sfida ogni logica apparente.
E l’Italia? Accanto a Poe e Doyle ci sono maestri italiani che meritano di essere riscoperti…
Assolutamente sì, e credo che sia arrivato il momento di riscoprirli. Per troppo tempo, parlando di giallo, ci siamo concentrati quasi esclusivamente sugli autori anglosassoni, dimenticando che anche in Italia c’era un fermento straordinario. Certo, non avevamo una figura iconica come Sherlock Holmes, ma avevamo autori che, per inventiva e capacità narrativa, non avevano nulla da invidiare ai colleghi stranieri.
Il primo nome che mi viene in mente è Francesco Mastriani, autore di Il mio cadavere (1852). È un romanzo che oggi definiremmo noir, con una trama che ruota attorno a un omicidio, ma che si distingue per il modo in cui affronta il crimine. Mastriani non si limitava a descrivere i fatti: scavava nelle cause sociali, nei disagi economici, nelle ingiustizie che portavano le persone a delinquere. Napoli, la sua città, non era solo uno sfondo, ma quasi un personaggio vivo, con i suoi vicoli oscuri e la sua umanità dolente.
Poi c’è Emilio De Marchi, che con Il cappello del prete (1888) ha scritto uno dei primi veri noir italiani. La sua forza sta nella capacità di intrecciare l’indagine con una riflessione morale e psicologica. Il male, nei suoi romanzi, non è mai solo un fatto esterno, ma qualcosa che nasce dentro le persone, spesso come conseguenza di traumi o frustrazioni.
E come non citare Carolina Invernizio? È stata a lungo considerata un’autrice “popolare”, quasi da romanzi rosa, ma in realtà ha dato un contributo fondamentale alla diffusione del giallo in Italia. I
suoi romanzi, pubblicati a puntate sui giornali, mescolavano mistero, passione e critica sociale. Era bravissima a tenere il lettore con il fiato sospeso, proprio come facevano i feuilleton francesi o i romanzi d’appendice inglesi.Infine, c’è Luigi Capuana, uno scrittore che viveva a cavallo tra realismo e occulto. Partecipava alle sedute spiritiche, ma con lo sguardo dello scienziato, sempre pronto a smascherare la frode ma anche disposto a lasciarsi sorprendere dall’inspiegabile. Nei suoi racconti e romanzi, il confine tra razionale e irrazionale è sempre sfumato, proprio come accade nei migliori gialli.
Questi autori, pur avendo scritto in un’epoca diversa, ci parlano ancora oggi, perché il loro modo di affrontare il mistero va oltre la semplice risoluzione di un caso. Raccontano un’Italia in trasformazione, divisa tra progresso e tradizione, tra speranza e paura. E forse è proprio questa complessità che rende l’origine del giallo italiano così affascinante e degna di essere riscoperta.
a cura di Francesco Ricci