La verità che dimentichiamo: la vita non vuole perfezione, vuole equilibrio

Nella vita non conta la perfezione, ma l’equilibrio. È una verità antica eppure sistematicamente dimenticata, come se ogni generazione dovesse riscoprirla da sé. Non la perfezione, quindi, ma quel fragile, dinamico e potentissimo stato che nasce quando le forze opposte dentro di noi non vengono eliminate, ma coordinate; non represse, ma comprese; non giudicate, ma integrate.

L’equilibrio non è quiete: è danza. È la capacità di stare in piedi in mezzo al vento, non quando non soffia, ma quando soffia da direzioni diverse. E in questa danza, paradossalmente, ogni passo incerto è essenziale quanto quello sicuro. Le culture orientali lo insegnano da millenni: lo yin e lo yang non sono poli da scegliere, ma elementi che si completano. “La luce non può esistere senza l’ombra” recita un antico detto taoista, e questo vale per ogni aspetto della nostra esperienza emotiva.

Una delle immagini più pure di questo equilibrio è un bambino che gioca. Quando osserviamo un bambino che si diverte davvero, non troviamo superficialità o distrazione; al contrario, troviamo una sorprendente serietà, quasi una forma istintiva di meditazione. Il bambino che gioca è concentrato, assorto, immerso: non perché il gioco sia un dovere, ma perché il divertimento è talmente autentico da richiedere tutta la sua presenza. È una scena che smentisce l’idea che divertimento e impegno siano opposti. Il bambino incarna l’unità delle forze: è leggero e serio, spontaneo e preciso, libero e disciplinato. Gioca, e proprio perché gioca, si applica. In lui non c’è conflitto tra due polarità: esse collaborano.

Questo tipo di equilibrio esiste anche negli adulti, ma spesso lo dimentichiamo pressati dall’illusione della perfezione. La perfezione pretende che una qualità prevalga sull’altra: che o siamo coraggiosi o abbiamo paura, che o siamo calmi o arrabbiati, che o siamo forti o vulnerabili. L’equilibrio, invece, riconosce che non esiste coraggio senza paura, né assertività senza un nucleo di rabbia, né resilienza senza aver attraversato il dolore. Ogni emozione sorge per ragioni funzionali, e smettere di giudicarle significa imparare ad orchestrare invece di censurare. Il dolore, per esempio, è un maestro scomodo ma fecondo. Senza dolore non impariamo a rialzarci, non scopriamo i nostri limiti, non acquisiamo quella forza che non è durezza ma elasticità. Le grandi opere della vita – dalle relazioni profonde ai progetti importanti – non nascono dalla sterilità di un percorso immacolato, ma dal contatto con la fragilità. “Ciò che non possiamo cambiare, dobbiamo almeno accettarlo” scriveva Jung, e in quell’accettazione il dolore diventa trasformazione. L’idea che solo dal disagio possa nascere la crescita non è un elogio della sofferenza: è un riconoscimento del fatto che certe risorse non si attivano finché il terreno non è scosso.

La paura, analogamente, è la matrice del coraggio. Senza paura non c’è rischio, senza rischio non c’è scelta, senza scelta non c’è libertà. Il coraggio non è l’assenza di paura, ma la decisione di attraversarla: e in questo movimento c’è equilibrio, non perfezione. La perfezione direbbe: “Non devi avere paura”. L’equilibrio dice: “C’è paura, riconoscila, guardala negli occhi e trasformala”. È una differenza enorme, perché la prima affermazione paralizza, la seconda accompagna. Anche la rabbia è spesso considerata un difetto da correggere, un’emozione da domesticare, un segnale di immaturità. Eppure la rabbia è il seme dell’assertività: indica un confine violato, un valore negato, un bisogno ignorato. Quando non è compressa né esplosa, ma compresa e orientata, la rabbia diventa parola chiara, postura diritta, capacità di dire “no” senza ferire e “sì” senza sottomettersi. La perfezione vuole eliminarla; l’equilibrio la converte. Una delle trappole più diffuse è la convinzione che l’armonia interiore sia il risultato dell’eliminazione delle parti “imperfette” di noi. Ma ogni tentativo di amputare una componente emotiva produce rigidità, non armonia. È come se un’orchestra volesse suonare eliminando gli strumenti che fanno rumore o che occasionalmente stonano: non rimarrebbe musica, ma solo silenzio.

 

 

L’armonia nasce dalla coordinazione, non dalla sottrazione. E spesso è proprio quel violino che sembra fuori controllo, quel fiato troppo impulsivo, quel tamburo un po’ ruvido a rendere la composizione viva. La psicologia parla apertamente di “integrazione delle parti”, un concetto che conferma ciò che le tradizioni sapienziali ripetono da secoli: siamo un mosaico, non un monolite. E ogni tessera, anche quella apparentemente meno elegante, serve per dare forma al disegno. L’equilibrio, in sostanza, non è uno stato di perfezione stabile, ma una continua negoziazione. Un equilibrio che cambia a seconda dei momenti, delle esperienze, delle relazioni. È un processo, non un risultato. La rigidità nasce dalla paura di oscillare, ma la vita è oscillazione. Come una barca che mantiene la rotta proprio perché si muove costantemente intorno al proprio asse, così l’essere umano si mantiene centrato quando accetta il proprio movimento interiore. Quando capisce che la stabilità non è immobilità, e che la salute non è assenza di tensioni ma capacità di gestirle. Crescere, allora, non significa imparare a essere perfetti, ma imparare a reggere la complessità.

Significa sviluppare la flessibilità necessaria per passare dalla dolcezza alla fermezza, dal coraggio alla prudenza, dalla serietà alla leggerezza, a seconda di ciò che la situazione richiede. Non si tratta di essere tutto contemporaneamente, ma di saper attingere al lato giusto al momento giusto. Come scriveva Walt Whitman: “Contengo moltitudini”. Accettare questa verità mette fine alla lotta inutile per diventare un’unica versione immacolata di se stessi. Quando non cerchiamo più di essere perfetti, smettiamo anche di temere le nostre contraddizioni. Esse non sono errori di progettazione, ma ponti evolutivi. Ogni volta che integriamo due opposti – dolore e forza, paura e coraggio, rabbia e assertività – compiamo un atto di maturazione psicologica. E soprattutto diventiamo più umani, più completi, più capaci di stare nel mondo senza romanzarlo e senza subirlo.

La vita non è un esercizio di levigatura; è un esercizio di integrazione. L’equilibrio che ne deriva è ciò che ci permette di affrontare le sfide con consistenza e le gioie con presenza. È ciò che ci permette di essere seri come un bambino che gioca, e leggeri come un adulto che ha imparato a non prendersi troppo sul serio. L’equilibrio non è il contrario della caduta: è la capacità di rialzarsi ogni volta, sapendo che ogni oscillazione contribuisce a renderci più capaci, più autentici, più colmi. Non la perfezione, dunque, ma l’unità armonica delle nostre forze interiori. Perché la perfezione è un’illusione statica, mentre l’equilibrio è una verità vivente. E la vita, per sua natura, appartiene alle verità che si muovono.

Dott. Jacopo Grisolaghi

Psicologo, Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Psicologia, Sessuologo, PsicoOncologo
Ricercatore e docente del Centro di Terapia Strategica di Arezzo
Professore a contratto Università degli Studi eCampus e Università degli Studi Link di Roma

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@dr.jacopo.grisolaghi