La protagonista della storia che voglio raccontare oggi si chiama Giovanna e, almeno a me, suscita tenerezza. Se posso provare tale emozione è perché la sua cartella, una volta tanto, è ricca di spunti e descrizioni. Devo perciò ringraziare lo sconosciuto collega di tanto tempo fa che probabilmente si coinvolse nel caso più di altre volte, con frequenti colloqui e facendo così emergere i tratti di una storia segnata, sì, dalla patologia, ma anche dalla solitudine.
La nostra Giovanna è descritta come una donna piccola, leggermente claudicante, con occhi e capelli castani, depressa, a volte lucidamente cosciente di essere destinata ad una vita “chiusa”.
Giovanna Vassallo arriva al ricovero l’8 gennaio del 1880, quando ha ventotto anni. Nell’anamnesi viene detto che ha già avuto un precedente ricovero a Siena, ma di quello non c’è traccia perché le cartelle cominciarono ad essere compilate e conservate non dalla istituzione del manicomio di San Niccolò (1818) ma solo da diversi anni dopo, intorno al 1870. Comunque di quel ricovero non viene riferito alcunché.
Giovanna è di Livorno, il suo aspetto fisico è descritto con qualche particolare in più del solito: alta un metro e cinquanta, con una gamba (la destra) leggermente più corta dell’altra, espressione triste e colpevole.
Perché? Ha tentato alcune volte di uccidersi, l’ultima volta tentando di affogarsi. Tra i vari metodi di suicidio, l’annegamento implica una fermissima volontà di farla finita. Una volontà che soffochi l’istinto di sopravvivenza per qualche secondo in più rispetto ad un defenestramento o a un colpo di pistola. Chissà, lei non ce l’ha fatta, si è fatta vincere dalla paura, dall’istinto di conservazione, oppure è stata soccorsa, non sappiamo. Certo è che adesso si vergogna molto di quello che ha fatto tanto da avere il timore di essere inquisita per quel gesto.
Infatti, nel primo aggiornamento clinico afferma che pensa di essersi rovinata per aver dato retta alle cattive idee di suicidio, di disperazione, ecc. Continua a sentire ancora “quell’uggia addosso”. Il medico le propone di andare alla musica, ma lei non accetta. Soffre da tempo di insonnia e la cura consiste in un centigrammo di morfina alla sera. Ma così diventa ancora più taciturna, mesta, distante, non si riesce a consolarla con nulla.
Dopo venti giorni qualcosa pare andar meglio, accetta di partecipare alla musica, mentre – così si esprime il medico – per la scuola non è ancora pronta. Viene però sospesa la morfina.
A fine gennaio va a scuola ed al lavoro. È diventata attiva e, quando va alla musica, canta con le altre.
A marzo insorge un ritardo mestruale affrontato con pillole emagoghe, composte di estratti vegetali che dovrebbero favorire l’afflusso di sangue, ma il problema, probabilmente innescato dagli sconvolgimenti emotivi vissuti in quel periodo, si risolve solo a maggio.
Come si vede gli aggiornamenti clinici si succedono con regolarità e buona frequenza.
Forse il miglioramento è dovuto semplicemente al fatto che qualcuno si interessa regolarmente a lei, le parla, le chiede come sta. Pare essere cosciente di questo quando, nel corso di una visita, così risponde al medico che le chiede il motivo del suo pianto. Lei piange “perché in questo mondo non ha nessuno per sé”, è sola, senza affetti. E poi continua con il suo tarlo: è piena di dubbi sul fatto che quando uscirà dal manicomio la giustizia la prenderà e le farà pagare i tentativi di suicidio.
Da qui in poi, forse perché la situazione è migliorata e desta meno preoccupazione nei curanti, gli aggiornamenti diventano un po’ meno assidui. A giugno dell’Ottanta si dice che sta molto meglio, e lo si conferma a gennaio dell’Ottantuno, ma qualcosa ostacola una dimissione che avrebbe concluso il naturale ciclo della cura. Probabilmente la legge allora vigente imponeva che qualcuno si assumesse ufficialmente la responsabilità della dimissione da un manicomio attraverso una firma e, come abbiamo già visto, lei non ha nessuno.
Ma persa quell’occasione, per qualunque motivo questo sia successo, la situazione si complica e nel settembre di quell’anno esplode uno stato maniacale che diventa lo snodo negativo forse perché convince tutti di una certa incurabilità della sua mente.
Bisogna dire che lo stato maniacale ha, naturalmente, un legame stretto con la depressione. Un attacco maniacale è come il negativo di un momento depressivo, ma la scena fotografata è la stessa. Allora i toni cupi e scuri diventano troppo chiari, là dove c’era silenzio e mutacismo appaiono logorrea e pensieri troppo veloci, al posto dell’abulia, della lentezza, tutto si ribalta in un attivismo spesso inconcludente e privo di una finalità. È anche il momento in cui i sogni segreti, le fantasie recondite e segrete hanno per un periodo la libera uscita, tanto da diventare per il soggetto la realtà vera.
Allora ecco che Giovanna comincia a immaginare che il medico della sezione donne (forse lo stesso che l’ha così con attenzione ascoltata e che le ha suggerito di andare alla musica) si sia innamorato di lei e “che la notte vada a suonare e cantare sotto le sue finestre” facendole appassionate serenate. Inoltre è sicura di aver avuto da lui promesse di matrimonio.
Quando si tenta di riportala con i piedi per terra, cerca una via d’uscita senza abbandonare del tutto le sue irrealistiche speranze e scrive una lettera ad un altro medico, affidandosi completamente a lui – dice – dopo essere stata abbandonata dall’altro.
Oggi una situazione del genere sarebbe affrontata con un discreto carico di terapia farmacologica, anche se per esperienza posso dire che tali patologie hanno comunque bisogno di un certo tempo per consumare la loro virulenza. Poi di solito si placano, al limite anche senza apporto farmacologico. Bisogna avere la pazienza di accompagnare il paziente in quel viaggio, impedendo che si faccia troppo male e che ritrovi un maggior equilibrio. So anche che mentre la depressione suscita pietà e commiserazione, l’attacco maniacale è meno facile da leggere e spesso è pieno di comportamenti incongrui e a volte difficili da sopportare.
Per tornare a Giovanna non si capisce nel dettaglio in quale modo i curanti affrontarono il momento difficile, ma l’impressione è che questo episodio segni in maniera pesante la previsione prognostica di Giovanna che inizia così ad affondare in una cronicità sempre più disperante.
Da allora in poi passano ancora quindici anni durante i quali si succedono con ciclicità rari accessi maniacali e molto più frequenti periodi di abulia ed apatia.
Le note cliniche si adeguano al ritmo consueto di una volta l’anno, spesso sono datate il 31 dicembre (come dire, all’ultimo tuffo, ci siamo ricordati anche di lei) e viene descritta la sua parabola discendente: debole di mente, a volte debolissima, ingrassata, sempre più stanca fino a che, nel settembre del 1896, a seguito di una patologia addominale, muore. Ha solo 44 anni.
Ciò che rende ancora più triste questo epilogo, che pare, da un certo punto in poi, prevedibile, è l’aver ritrovato in cartella una sua supplica indirizzata al sindaco di Livorno e mai spedita. Eppure è una lettera ben scritta che dimostra anche una certa padronanza di linguaggio, senza tanti errori e da cui si evince l’acuta coscienza della sua condizione, come dimostrerò tra poco.
Non senza aver prima dichiarato che il capitolo delle lettere scritte e mai partite dall’ospedale rappresenta, secondo me, una delle violenze più forti a cui i pazienti erano sottoposti.
Pare quasi di vedere i medici o gli infermieri che assicurano a questi poveretti che i loro scritti saranno spediti e che poi, voltato l’angolo, lasciano perdere, scuotendo il capo, e allegano quella lettera alla cartella come un altro segno di pazzia.
Veniamo alla lettera che Giovanna scrive al sindaco di Livorno al quale si rivolge, nel preambolo e nei saluti, con tono rispettoso e nello stesso tempo chiaro.
Ad un certo punto dice: “trovandomi in questo manicomio già da molto tempo (scrive la lettera nel 1892, dopo 12 anni di ricovero N.d.R.) senza sapere più niente dei miei di famiglia, sono desiderosa di sapere se sono vivi o morti; onde mi rivolgo alla Sua signoria Illustrissima per sapere se la famiglia Vignolini (forse si trovava al loro servizio? N.d.R.) dimorante in via Santa Vigilia N°5 al terzo piano sono vivi o morti. Mi rivolgo alla sua Signoria Illust.ma per sapere una qualche cosa….. Sono 12 anni che dimoro in questo manicomio ed avendoli scritto molte volte, non ho ricevuto alcuna risposta, mi fanno temere che gli sia accaduta una qualche disavventura perché dapprima stavo con loro in famiglia, poi essendomi trasferita da un mio zio di Carrara per alcune circostanze di famiglia, fui assalita da una forte alienazione mentale onde dovei tornare alla città di Livorno per essere condotta in questo manicomio, ove sono 12 anni che vi sono senza speranza più di uscirne perché non ho alcuno che mi prenda.”
Qualche rigo sotto, ripete il concetto: “il suo gentile cuore vorrà commuoversi a pro di una infelice orfana che confida molto nel di lei aiuto in sì estremo bisogno poiché non ha alcuno che si presti in mio favore mentre da tutti abbandonata, nessuno vuole prendersi la responsabilità della mia povera persona”.
Ma – come la stessa Giovanna aveva previsto – nessuno si presterà in suo favore e la sua vita finirà quattro anni dopo quella lettera, senza essere mai più uscita dalle mura del san Niccolò e … senza che nessuno le abbia mai davvero rivolto una serenata.
Andrea Friscelli