Le storie del manicomio di Siena – Giuseppa e le finestre

Non mi era mai capitato di riflettere sul significato psicologico di un manufatto d’uso comune come una finestra. Eppure, quando qualcosa mi ha costretto a farlo, mi sono reso conto delle implicazioni notevoli che tale oggetto ha e di come, a seconda di chi la usi, metta quasi in luce opposte visioni del mondo.
Mi spiego: prendiamo un individuo che abbia una personalità estroversa, aperta e curiosa della realtà circostante. In tal caso una finestra a disposizione diventa un’opportunità di affaccio sul mondo esterno, di confronto, di ammirazione o di critica di chi passa, di pettegolezzo, comunque di partecipazione attiva verso l’esterno. Se proviamo invece a immaginare una persona timorosa, introversa, magari anche con un’indole un po’ sospettosa, è probabile che la finestra capovolga il suo senso, diventando una pericolosa feritoia da cui sguardi intrusivi scrutano e rubano la vita. In tale visione una finestra è un pericoloso punto di debolezza, una falla nella rete di protezione verso il mondo esterno che può carpire la propria intimità, alla ricerca di muovere critiche o di preparare pericoli.


E’ in fondo un tema attuale: quello della privacy. Quanto se ne parla oggi e quanta paura e fastidio c’è per occhi e orecchi elettronici che scrutano le nostre vite! Quanti moduli, spesso inutili, siamo costretti a firmare in ogni occasione per preservarla, quando poi tutti sappiamo che la nostra intimità è spesso violata in mille modi e per mille scopi diversi.
In realtà queste riflessioni mi sono state suggerite dalla storia di Giuseppa, una donna che viene ricoverata al San Niccolò nell’ottobre del 1880, che lì soggiorna per molti anni e che nel corso della lunga degenza sviluppa la paura delle finestre. Il medico che scrive in cartella così riporta: crede che le finestre le facciano del male. Aveva paura sospettando che lì dietro qualcuno fosse pronto a farle del male e quando doveva inevitabilmente passare davanti a qualcuna di esse, si affrettava, cercando di stare lontano dalla luce dell’apertura, come se da fuori un cecchino potesse colpirla e affondarla solo con uno sguardo.
La storia di Giuseppa e dei suoi pensieri strani è interessante per diversi aspetti: quello che mi ha di più colpito è questo che vi ho accennato e che sembra il naturale sviluppo, intercorso durante il ricovero, del delirio già presente da qualche anno.


Giuseppa Pisani, nubile e domiciliata a Livorno, è ricoverata nell’ottobre del 1880, quando è una donna ormai attempata (per quei tempi) di quarantadue anni. Nella modula informativa al punto in cui si indaga sulla professione, sta scritta una dicitura malinconica: senza arte. L’espressione come spesso la conosciamo è mutila: si dice di solito senza arte né parte, che voleva dire senza una professione e senza un patrimonio. Proprio così è Giuseppa: senza una professione e povera. Viene descritta come una persona “costumata” e di buona indole, sa leggere e scrivere un poco. Qualche anno prima ha sofferto di un episodio depressivo, cosa che, forse per un effetto di trascinamento, porta i medici a diagnosticare di nuovo una lipemania (la depressione). Francamente, però, al momento del ricovero la patologia sembra più orientata verso una forma di delirio persecutorio che mette in luce i problemi di convivenza con i vicini e più in generale con il mondo intero. La paziente intanto pensa che i suoi parenti siano tutti morti, ma soprattutto pensa che i vicini la spiino attraverso i muri. Ce n’è una in particolare che Giuseppa ricorda spesso la quale si sarebbe procurata un cannocchiale e dopo essere salita sul suo tetto, passerebbe il tempo a scrutare le sue giornate e le sue notti, andando poi in giro a dire cose su di lei.
Cosa? Per esempio che – com’è riportato in cartella – “ella tenesse una pratica amorosa col fratello (uno dei due che aveva)”. Impossibile non pensare che Giuseppa fosse afflitta dalla sindrome del Panopticon, quello di Bentham. Qualcuno può vederti sempre, in tutto quello che fai, anche se non puoi esserne proprio certa, perché tu non te ne accorgi. Bentham riteneva che questa sensazione potesse far nascere la coscienza morale in chi ne era carente o addirittura sprovvisto. Insomma un metodo educativo o rieducativo per carcerati, mentre poi si rivelò una tortura psicologica più adatta a far impazzire le persone che altro.
Mi pare che Giuseppa, a tal proposito, possa essere un esempio calzante del fatto che l’essere sottoposti a un’osservazione costante (anche se solo immaginata) non migliora certo la coscienza morale e il buon rapporto con la realtà, ma crea invece le premesse per la paranoia. Tra l’altro lei giunge al San Niccolò tre, quattro anni dopo che il padiglione Conolly è stato inaugurato, reparto che in qualche modo sposava quei principi come un’assoluta avanguardia. C’è in Giuseppa un’inclinazione forte ad interpretare la realtà, che equivoca quasi sempre, come aggressiva e a lei contraria. Un episodio quasi comico riportato in cartella lo conferma. Mentre si trova in infermeria, giunge lì un’altra malata per visitarsi. Il medico ci dice che la donna era dotata di “una mimica facciale alquanto grottesca”. Giuseppa pensa che sia venuta lì per fare le boccacce a lei e per prenderla in giro, così prima la copre d’improperi e poi le urla: che son brutta lo so da me, non occorre che vengano a conoscermi!
Giuseppa all’inizio della permanenza al San Niccolò si oppone fieramente al ricovero, chiede continuamente di essere dimessa, protesta spesso di essere trattenuta lì ingiustamente, tanto da sostenere per diverso tempo che non sono matta io, sono qui solo per l’invidia di chi mi sta vicino. Poi entra in una fase che si potrebbe definire, con una parola “moderna”, di somatizzazione. Accusa continuamente qualche malessere. Soprattutto allo stomaco ma anche all’intestino. Ha spesso vomito, incappa anche lei in un’epidemia di congiuntivite, spesso presente in quegli anni al San Niccolò. Così spesso la sua permanenza non è nel normale reparto ma in infermeria.
Quest’aspetto del ricovero ci permette di mettere a fuoco un altro aspetto interessante del rapporto che instaura con l’ambiente dell’ospedale e ciò riguarda l’utilizzo dei farmaci e il significato che a questi Giuseppa attribuisce. In nessuna delle cartelle che ho fino ad ora studiato, mi sono trovato di fronte ad un utilizzo così variato e continuo di farmaci. Sono tutte sostanze (tranne la morfina) che oggi a mala pena farebbero parte degli integratori, ma visto i tempi, quelle erano le armi che i sanitari avevano a loro disposizione. Eccone una lista: elisir di china, decotto di china, cloralio, morfina, olio di fegato di merluzzo, ancora decotto di china, soluzione di tamarindo con laudano, bismuto con morfina, collirio di nitrato d’argento e zinco. E’ evidente che il medico cercava almeno di agire sul fisico dal momento che la mente di Giuseppa era poco disposta a qualsiasi cambiamento. Si dà da fare per farla sentire più in forze, ma lei, prima o poi, rifiuta tutte queste sostanze. La china in elisir le dà acidità, il decotto meno concentrato non le fa nulla, il cloralio è amaro, allora le viene somministrato con l’alchermes ma non fa alcun effetto, il tamarindo e laudano non calmano i dolori addominali, la morfina la stende, l’olio di fegato di merluzzo che dovrebbe aumentarle l’appetito, lo fa diminuire. Tutte le altre sostanze hanno vita breve prima che lei sbaragli ogni tentativo di curarla, mettendo di nuovo in luce il suo atteggiamento generale. Tutto quello che le viene dal mondo circostante, porta nel suo interno solo sofferenza o inutilità e quello che lei può fare è solo chiudersi, rifiutare, magari offendere chi, secondo lei, cerca di farla star male.
Forse questo suo atteggiamento è in piccola parte spiegato da una noticina che si trova all’inizio della cartella: Giuseppa è afflitta da un acufene, un fastidioso rumore continuo che la rende quasi del tutto sorda dall’orecchio destro, e come si sa sordità e paranoia stanno spesso insieme. Una diminuzione delle capacità percettive obbliga il soggetto a forzare sempre un po’ l’interpretazione di quello che viene detto intorno a lui, finché poi diventa una sorta di habitus mentale permanente.
La fine della storia è simile a quella di molte altre. Giuseppa, nonostante i tentativi di farla stare meglio, nel maggio del 1885 si ammala di una grave broncopolmonite e a metà di quel mese muore, la sua vita è durata quarantasette anni.
Probabilmente senza aver mai cambiato la sua idea di essere capitata in un mondo ostile che non l’ha mai voluta.