Le storie del manicomio – Maria ed il Principe di Napoli

Scrivere (e leggere) le storie del San Niccolò vuol dire provare tristezza e pena, per chi possiede ancora quella cosa che si chiama umanità. Qualche volta può voler dire provare senso di colpa. A me è successo partendo dalla semplice domanda: perché a lui e non a me? Ci sono naturalmente tante spiegazioni di vario tipo che ci fanno capire alcuni di quei perché, ma non leniscono mai del tutto l’idea di un destino che si è accanito contro qualcuno. Ormai non possiamo più fare nulla per questa moltitudine silenziosa e passata. Però ci possiamo almeno impegnare a far sì che la loro memoria non si perda del tutto. Se questo è il senso di questo raccontare, allora è stato naturale aver raccolto reazioni di commozione e di partecipazione addolorata. Raccontando le vicende degli ultimi e le loro vite disgraziate, spesso concluse con la morte in manicomio, lontani e scordati da tutti, anche dai familiari più stretti, non ci si poteva aspettare nulla di diverso.
Oggi vorrei provare a variare un po’ registro raccontando una storia che forse può anche strappare qualche sorriso. Intendiamoci siamo sempre all’interno di quell’atmosfera di segregazione ed abbandono che il manicomio quasi fisiologicamente creava e quindi è comunque difficile stare allegri.
Due i motivi di una maggiore leggerezza: intanto questa storia non si conclude con la morte della paziente che invece viene dimessa migliorata (anche se trasferita presso un altro istituto, dove magari col tempo la sorte sarà stata la stessa), ma soprattutto per la sua particolare patologia, un delirio di grandezza, che ci fa entrare in un universo immaginario fatto di straordinari personaggi, di accordi sotterranei e segreti che hanno al centro la nostra protagonista. Se tutto ciò è messo a paragone con la sua reale vicenda umana, è difficile che, sia pure nella malinconia di una vita certo poco felice, non faccia un po’ sorridere.

I pazienti affetti da questa particolare patologia rappresentano spesso i protagonisti preferiti delle barzellette sui matti, che, attraverso una ridicolizzazione, mettono in rilievo gli spropositi che gli stessi sostengono. Ho già citato in un pezzo precedente quel paziente benestante che si ritrova ricoverato al San Niccolò per frenosi paralitica nel 1889 (lo stesso anno della nostra protagonista) e che appone nella cartella clinica come sua firma la seguente dizione: Edmondo Napoleone Bonaparte Weys di Savoia Cargnam Imperatore e Messia. Sembra non accontentarsi della genealogia principesca e napoleonica, alla fine è anche Messia!
In genere questa patologia era sostenuta dall’infezione luetica di cui rappresentava la fase finale, quella cerebrale, ed ha popolato, in quegli anni, di principi fasulli e di falsi ricconi i manicomi d’Italia. Più raramente il delirio di grandezza (non del tutto scomparso ma spesso non diagnosticato, ahimè, anche ai nostri giorni) compare anche senza il sostegno di quell’infezione, come nel caso di Maria che viene, infatti, diagnosticata come un esempio di “monomania intellettiva”.
E veniamo al racconto della sua storia.
Maria Sandroni giunge al San Niccolò il 13 aprile del 1889, ha trentuno anni, di professione cameriera e di condizione povera. È residente a Cecina ma per il suo lavoro si è spesso spostata in giro per mezza Italia. L’anamnesi familiare è molto ricca: il padre è definito nervoso e collerico, la madre è melanconica, una zia ha sofferto di convulsioni. Quando ha compiuto diciassette anni è stata spedita dal fratello che abita a Firenze. È lui che l’avvia al lavoro fuori da casa, mandandola a servire in una famiglia di quella città (sollevandosi così del suo sostentamento!). Qui a causa di una passione amorosa che probabilmente la distoglieva dal suo dovere e per questo certo non gradita dalla padrona, viene licenziata. I successivi incarichi che trova, prima a Roma, poi a Bibbona, in seguito a Cecina, finiscono sempre, dopo poco tempo, allo stesso modo. Non riesce a tenersi un lavoro a lungo quasi sempre perché – così scrive il medico – si monta la testa con pensieri di amori più o meno immaginari che la distolgono dall’impegno.
Quando arriva a Siena la sua patologia è particolarmente florida e strutturata. Infatti ecco quello che racconta nel suo primo colloquio.
Maria sostiene di essere stata proclamata santa e per questo afferma che il suo corpo purissimo non può essere posseduto che da Re o Principi di sangue regio. Attualmente è in corso un ardentissimo amore con il Principe di Napoli. Con questo titolo si identificava l’erede al trono di casa Savoia. Nel 1889 Re d’Italia era Umberto I e l’erede, che poi gli successe nel 1900, era Vittorio Emanuele, in quegli anni appunto Principe di Napoli.
Secondo Maria, Re Umberto non si oppone affatto a questo rapporto e neppure proibisce un futuro matrimonio. Anche Vittorio Emanuele la ricambia dello stesso amore. Gli ostacoli vengono da Papa Leone XIII, il quale, cercando l’alleanza della Francia nella sua volontà di ristabilire il regno Pontificio, briga segretamente per far sposare il principe Vittorio a qualche principessa francese.
Insomma Papa Leone XIII la odia, ma non potendo certo togliere a lei la santità di cui è dotata, l’ha fatta rinchiudere come pazza. Di ciò il Principe si addolora e mai ha smesso di intercedere in vari modi a suo favore. Quando è stata, per qualche giorno, ricoverata a Pisa si recò da lei insieme a Sua Maestà Umberto, il padre, e la fece sciogliere dal letto. Così tutti e tre conversarono insieme amabilmente per diverso tempo.

Questi intrecci fantastici a mio parere si possono, soprattutto in un primo colloquio, solo ascoltare, spesso è inutile, se non dannoso, interferire o cercare di cimentare il paziente con la realtà. In questo specifico caso il medico avrebbe potuto forse interiormente ammirare quanto, nonostante la sua scarsa cultura, Maria fosse aggiornata sulla situazione politica in corso in quegli anni.
Poi quando il medico, al secondo o terzo incontro, comincia a metterla a confronto con il fatto che però adesso si trova lì dentro, Maria sembra, solo per un attimo, retrocedere dalla sua posizione. Afferma, infatti, che accetterebbe di sposare anche quel tale di Bibbona, dai natali molto più modesti, quel tale Bencini che (ma sarà vero?) le aveva fatto un po’ il filo quando lei ha lavorato là.
Ma dopo quest’incertezza si riprende e rilancia il bluff, dicendo che il suo attuale ruolo privilegiato nella politica europea di quei giorni le ha permesso di ottenere il risultato di aver impedito la guerra tra Francia e Italia.
Nel corso del ricovero Maria in realtà si dimostra una persona modesta, quieta, umile. Non crea particolari problemi di gestione, solo se qualcuno la stimola, entra nel suo mondo immaginario che, per essere sostenuto, ha bisogno di una continua logorrea che non accetta di essere interrotta.
Insomma si intravede in filigrana che il problema, il conflitto di cui Maria soffre è simile a quello che Freud descriverà solo qualche anno dopo e che per sintesi chiamò del “romanzo familiare”.
In sostanza la paziente sembra non aver trovato, forse mai, neppure in famiglia (prima i genitori, poi il fratello) chi l’abbia amata così com’era, né tantomeno apprezzata per qualche sua qualità. Anche per questo – deve aver pensato – non ha mai trovato un amore vero ed allora la sua mente ha escogitato questa scappatoia, rifiutando la strada della depressione e sperimentando un metodo più complicato: quello dell’immaginazione.
E se siamo a immaginare – sembra aver considerato – perché porsi limiti? tanto vale farlo in grande, collocandosi al centro della politica europea di quel momento e aspirando al miglior partito d’Italia di quegli anni: il principe ereditario. Ma certo se si facesse avanti il Bencini di Bibbona con una proposta seria la potrebbe anche accettare, pur di togliersi da quella vita di serva in giro per l’Italia.
C’è in questo tentativo di salvarsi attraverso la fantasia qualcosa di nobile e di straordinario che la rende simpatica e spinge al sorriso. Pare di vederla al lavoro, sì, ma con la testa sempre nell’empireo delle sue fantasie, rispondere svogliatamente agli ordini delle varie padrone, eseguire le faccende mediocremente, fino a ché quelle si scocciavano e la licenziavano.
Nel corso del ricovero che dura un po’ meno di dieci anni Maria si acquieta e perde progressivamente le sue idee di fasto regale. Forse nessuno si diverte più a sentirla parlare, nessuno le chiede più nulla e quindi la sua vicenda sfuma inesorabilmente sullo sfondo di quell’anonimato che il manicomio “regalava” a tutti.
Qui si riaffaccia, inevitabile, un po’ della tristezza di cui parlavo all’inizio. Dopo le lunghe relazioni che si trovano in cartella all’inizio stimolate dalle sue lussureggianti e fantastiche imprese, gli scritti si diradano, saltano a volte periodi di anni.


L’ultima nota ci racconta che Maria verrà trasferita all’ospizio di mendicità di Volterra. Siamo nel 1898, dal suo ingresso sono passati quasi dieci anni. L’ospizio accennato è naturalmente il primo nucleo del nuovo ospedale psichiatrico di quella città. È curioso sapere che tra Siena e Volterra si svolse una piccola guerra concorrenziale sui prezzi della retta. Siena chiedeva una lira e mezzo al giorno, prezzo piuttosto alto tale da frenare l’afflusso massiccio di pazienti provenienti da quelle zone. Allora Volterra, per lanciarsi nel mercato dei ricoveri, si impegnò a chiedere solo una lira. Così nel giro di qualche anno molti dei pazienti di quelle zone che erano al San Niccolò furono trasferiti a Volterra dove le provincie incaricate di sostenere il costo del ricovero, spendevano meno.

 

Per tornare a Maria, possiamo dire che nel corso del tempo è guarita? Non lo so, per certi aspetti sì. Certamente ha smesso di giocare a quel gioco infantile di spararle grosse. Chi di noi non lo ha mai giocato per stupire gli amici e per riderne, poi, insieme a loro?
Forse Maria ha cominciato nello stesso modo ma poi la necessità psicologica che la muoveva ha finito per incastrarla a lungo dentro al gioco, dentro alle atmosfere in cui quell’artificio la trasportava, le uniche che la facevano sentire davvero viva ed in grado di incantare con le sue alte amicizie ed i suoi segreti amori l’interlocutore di turno.

Andrea Friscelli

Katiuscia Vaselli

Nata nel cuore di Siena, giornalista e contradaiola fervente. Ora Capo-redattorice di Siena News e Presidentessa di Dinamo Digitale.

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Katiuscia Vaselli

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