Il testo dell’ “Armando”, la canzone incisa da Enzo Jannacci nel 1964, starebbe in piedi anche senza la musica, a partire dalla sequenza di accordi (FA, LA7, RE7, SOLm7, DO7) che accompagnano il celebre inizio: “Era quasi verso sera / se ero dietro, stavo andando”)? Indubbiamente, avrebbe comunque una sua plausibilità, una sua coerenza, un suo significato.
E la stessa cosa potrebbe dirsi dell’ultimo lavoro di Luigi Bicchi “È caduto giù l’Armando”, se immaginassimo di cancellare via le vicende e le azioni propriamente poliziesche (l’omicidio del fotografo Armando Mezzetti, le spericolate operazioni finanziarie dell’ingegner Quintiliano Recalcati, l’inchiesta condotta dal maresciallo Casati, le analisi della Scientifica)? Assolutamente sì. E lo dico non già per sminuire in Luigi Bicchi la capacità di orchestrare con sapienza intrecci riconducibili al genere del romanzo giallo – d’altra parte, le precedenti quattro inchieste del maresciallo (“Il gioco delle tombe”, “Il gioco del tempo”, “Il gioco dei nomi”, “È Natale, maresciallo Casati”) sono proprio lì ad attestare il contrario – quanto per sottolineare una costante evoluzione nel campo della scrittura, che consente di guardare all’autore come a un abile cantore della cronaca e della storia di Siena e dintorni.
Da un lato, infatti, Bicchi è un maestro nel narrare eventi riconducibili alla dimensione più trita e consueta dell’esistenza di una città o di un paese (evidente a me pare la lezione di Carlo Cassola), dove la generosità può convivere col ricatto, la purezza di un sentimento con le voglie più oscure e più abiette; dall’altro, non perde di vista il tempo misurabili in secoli, che viene incontro al lettore sotto l’aspetto di un monumento, di una consuetudine, di un proverbio, di una festa, anzi, dal momento che la “civitas” in questione è Siena, potremmo dire semplicemente della Festa. Non a caso “È caduto giù l’Armando” si apre sulla descrizione di una splendida giornata di giugno, dove l’invisibile energia che già pare preannunciare la carriera del 2 luglio si accompagna al ritmo lento della descrizione urbana, che nulla tralascia (il volo delle rondini, il conversare dei contradaioli, l’edificio del Duomo e di Palazzo Pubblico), quasi a voler suggerire l’intimo legame che unisce microcosmi e macrocosmi, il dettaglio e l’insieme. Ma non è forse, questo legame, la capacità, intendo, di cogliere questo legame, ciò che distingue un buon investigatore da un investigatore maldestro? Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo.
“Era proprio un bell’inizio di giugno quello che si stava spandendo sopra Siena. La primavera si preparava a cedere il passo all’estate, il cielo era sgombro di nuvole e le rondini si rincorrevano in quei loro voli impazienti e abili nel catturare l’attenzione dei turisti che, poveretti, non sapevano più dove posare gli occhi, su quelle traiettorie di accenti circonflessi trancianti l’aria o sugli immoti palazzi antichi. Davvero un bel giugno. L’aria che si respirava in città era frizzantina, e non solo per quel leggero venticello che ogni tanto agitava qualche cima d’albero, ma perché il trascorrere di ogni giorno, ora, minuto, avvicinava tutti al primo appuntamento con il Palio. Già si conoscevano le Contrade che lo avrebbero corso, adesso non restava che dare corpo ai pensieri più nascosti, agli accordi studiati e ristudiati in attesa che la sorte aggiungesse l’ultimo tassello per completare il quadro: l’assegnazione dei cavalli. Mancava ancora qualche settimana a quell’appuntamento, in un’altra città forse non ci avrebbero fatto nemmeno tanto caso; non la pensavano proprio così i senesi che, abituati da sempre ai capricci della buona e cattiva fortuna, provavano, con la forza dei loro desideri, a dare un senso a quella immanente casualità. Nei bar, nei ristoranti, nei vicoli e nelle strade delle Contrade si sprecavano analisi sulla forza di questo o quel cavallo, sulla tenuta e adattabilità al percorso della Piazza: i risultati ottenuti nelle corse in provincia venivano sussurrati quasi come un mantra che si ripeteva uguale giorno dopo giorno. L’unica che, come una vecchia ingioiellata signora, manteneva il proprio stile era la città che, nonostante i secoli, dimostrava di saper ancora indossare quel bellissimo abito color rosa antico dove le vie di pietra serena facevano da decoro e il Palazzo Pubblico, il Duomo e il Facciatone comparivano come i fili di perle di una splendida collana. La più lontana basilica dei Servi, aggiungeva un ulteriore tocco di eleganza, tramutandosi in un anello di ametista. Questa era la città in quel 3 di giugno e tutti, abitanti, turisti, cani, gatti, piccioni e rondini facevano a gara per non esserle da meno”.
Luigi Bicchi, È caduto giù l’Armando, Betti, Siena 2018
a cura di Francesco Ricci