La geografia delle opere di William Shakespeare, vale a dire la mappa dei luoghi nei quali sono ambientati i drammi storici, i drammi romanzeschi, le tragedie, le commedie, comprende anche l’Italia. Dalla Sicilia (“Racconto d’inverno”) a Roma (“Giulio Cesare”), da Verona (“Romeo e Giulietta”) a Padova (“La bisbetica domata”), il Bel Paese si offre come la scena ideale d’ambientazione, a volte un po’ di maniera, altre volte con tratti più originali, di alcune delle vicende più note. Da qui l’idea che Shakespeare abbia avuto modo di conoscere realmente e direttamente l’Italia, magari, come alcuni studiosi sostengono, dopo avere abbandonato Londra colpita dalla peste (qualcuno si è perfino spinto a ipotizzare che il grande drammaturgo fosse nato a Messina e fosse figlio del medico Giovanni Florio e della nobildonna Guglielma Crollalanza). Di conseguenza anche l’ultima pubblicazione di Maria Rosaria Perilli, “Viaggio a Firenze di William Shakespeare” (Nardini editore), se da un lato è riconducibile al genere delle “vite immaginarie”, dall’altro, però, non deve essere ascritta al novero delle opere di fantasia. Oltretutto, se la conoscenza reale di Firenze da parte dello scrittore inglese resta ancora da dimostrare, documentata, invece, e storicamente esatta risulta la ricostruzione della topografia del capoluogo toscano sullo scorcio del XVI secolo che fa da sfondo al romanzo, in forma diaristica (dal 28 giugno 1590 al 25 giugno 1591), della Perilli. Di grande interesse risulta anche l’apparato di note che, come è nello spirito della collana ideata da Ennio Bazzoni “Città mai viste”, dà conto del nome che strade e piazze hanno assunto in tempi più recenti, oltre che offrire sintetiche informazioni relative a personaggi, feste, usi, ville, palazzi citati nel libro. Nel passo che segue vengono spiegate le ragioni che hanno spinto Shakespeare a intraprendere il viaggio alla volta di Firenze. Lo stile è modellato, specie a livello di costruzione della frase e di sintagma nome-aggettivo, sulla scrittura di colui che, come ha scritto in un suo voluminoso saggio Harold Bloom, merita a pieno titolo la definizione di “inventore dell’umano”.
“28 giugno 1590. Pomeriggio. Mi siedo, e a questo tavolo sono già pronti un pennino, un calamaio e fogli bianchi, sottili e costosi. Quale invito! Sì, lo raccolgo come fiore dalla terra, parlo a me e scrivo piano, in questa lingua che stimo la più elegante, la più copiosa di tutte, dopo la greca e la latina, primogenite sorelle. Eccomi, sono a Firenze, è finito il viaggio durato giorni e poi giorni, e voglio ora dirne, ricordare la ragione che ad esso mi condusse, e qui in città, perché nel ricordarla vengo ancora percorso da brividi e sento lo stesso gioioso stupore di quella sera a Southampton, dove mi trovavo ospite del conte Henry. Mi par di rivedermi nell’ampio studio, con l’amico John Florio impegnato nella traduzione del “Decamerone” di Boccaccio, quel servo che entrò annunciando la visita di Sua Eccellenza Virginio Orsini, nipote del granduca di Firenze Ferdinando I, e per suo incarico venuto fino in Inghilterra. Era alla ricerca d’un maestro d’inglese, egli avrebbe vissuto a palazzo de’ Pitti, presso la corte granducale, per dar lezione ai nobili discendenti, e mi chiese, pochi giorni a seguire, d’esser quel maestro! Mi scelse, accettai, e non mi parve vero che a me, proprio a me, fosse stato offerto un tal sogno! Così, meno di tre settimane dopo, ero alla rada di Porthsmouth ad imbarcarmi, iniziare il percorso su un mare soffocato dalla nebbia e io impaziente servo di quel Tempo che mai sembrava trascorrere”.
a cura di Francesco Ricci
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