Quando nel 1797 Goethe dette alle stampe “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister”, probabilmente non sapeva di dare inizio a un genere, quello del “Bildungsroman” (“Romanzo di formazione”), destinato a grande fortuna. L’“Enrico di Ofterdingen” di Novalis e “Il rosso e il nero” di Stendhal, “I promessi sposi” di Manzoni e “David Copperfield” di Dickens, “Le illusioni perdute” di Balzac e “L’educazione sentimentale” di Flaubert sono solamente alcuni dei capolavori riconducibili a questo filone narrativo del romanzo ottocentesco, che conserverà intatta anche nel secolo successivo la sua importanza, come attestano, tra gli altri, “Ernesto” di Saba, “I turbamenti del giovane Torless” di Musil, “La montagna incantata” di Thomas Mann, “Agostino” di Moravia, “Il giovane Holden” di Salinger, “Il gioco delle perle di vetro” di Hesse, “L’isola di Arturo” di Elsa Morante, “Due di due” di De Carlo. Al centro di questi romanzi c’è sempre la figura di un giovane che si forma, che matura, passando attraverso svariate esperienze, che poi altro non sono che un attraversamento del mondo, il mondo della storia, il mondo del bene e del male. Ecco perché il vero tema di fondo del Bildungsroman, sebbene ora più in luce, ora più in ombra, è costituito dal rapporto tra le aspirazioni dell’individuo e le norme, le attese, le richieste della società, che esige, che reclama con forza l’integrazione di ogni suo membro. Ma questa integrazione, se guardiamo all’evoluzione del genere letterario in questione, appare sempre più difficile e problematica: tra l’autonomia del singolo e l’accettazione delle norme collettive, infatti, si è aperto uno iato. È quanto accade anche in “Occhi di sale”, l’ultimo lavoro di Massimo Granchi, nel quale la crescita dei tre protagonisti, Matteo, Nino, Paolo, si traduce nella rinuncia alle aspirazioni giovanili, o perché non sostenute da sufficienti perseveranza e convinzione o perché fiaccate dalla malasorte. Nulla di quanto avevano sognato viene realizzato, né sul fronte della professione né su quello dei sentimenti. Ciò che il trascorrere degli anni porta loro in dote è unicamente una migliore comprensione del rapporto, all’interno delle rispettive famiglie d’origine, con la figura paterna, oltre che la certezza della solidità della loro amicizia. Ecco come ci viene presentato il personaggio di Matteo in una delle pagine iniziali:
“Lo studio rappresentava per me un’occasione di riscatto. Dedicavo molto tempo alla lettura dei libri. Non c’era alcuna rispondenza delle mie passioni con le aspettative dei miei genitori, che sembravano però contenti di sapermi interessato alla scuola piuttosto che alla strada, a bruciare auto come facevano alcuni miei conoscenti. Gli otto e i nove che collezionavo gli accendevano in volto un’espressione di incredulità. Erano intimoriti da un mondo sconosciuto. Io lo capivo e preferivo non infierire raccontandogli le mie giornate. Mi sentivo diverso ma non migliore di loro; la poca empatia che dimostravano nei miei confronti mi spronava a insistere per riconoscermi. Ero avaro nella condivisione delle mie curiosità per la scrittura, ma non rinunciavo ad esprimere quello che mi sarebbe piaciuto fare nella vita. Mi chiudevo dunque nella mia stanza per dedicarmi segretamente a questa arte. Lasciavo che il mio isolamento fosse dimostrativo delle mie ambizioni; soprattutto agli occhi di mio padre che voleva facessi un lavoro pratico che imbrattasse le mani. Il suo rapporto con lo studio era stato accessorio, un passaggio obbligato verso l’età adulta. Una parte dell’infanzia l’aveva trascorsa nei campi”.
a cura di Francesco Ricci
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