Nella precedente puntata in poche righe ho cercato di raccontare la figura di una donna di grande tempra che, lungi dal farsi abbattere dalle avverse vicende, trova la forza di intraprendere un’impresa intellettuale che trova pochi eguali. Quella storia ci spiega forse anche perché la sua visione della mente è così piena di contrasti a tinte forti: odio e amore, invidia e riparazione sono termini che ricorrono spesso nei suoi scritti e di cui anche la sua vita è stata impastata nelle aree principali: famiglia, lavoro, studio.
Con lei la psicoanalisi si inoltra nello studio della mente infantile. Anche Freud se ne era interessato ma da un punto di vista più teorico. Con lei invece si cominciano a raccogliere dati clinici al proposito.
L’impostazione teorica dedicata ai bambini le permette in realtà di offrire spunti di riflessione anche per la patologia psicotica degli adulti, settore che il Maestro riteneva scarsamente curabile con la sua psicoanalisi, rivolta principalmente ai nevrotici.
Sto per addentrarmi in un’area difficile da descrivere, nella quale sarà complicato trovare parole semplici: la descrizione della mente infantile e dei suoi meccanismi secondo la Klein. Ci provo.
L’autrice sostiene che il bambino sviluppa la propria dotazione mentale attraverso sensazioni primordiali che ci possiamo rappresentare con qualche difficoltà. Il processo parte da una percezione della realtà che nel neonato, vista la non ancora completa maturazione degli organi percettivi, può solo essere parziale. Si può pensare che le sue prime sensazioni facciano riferimento alla “cosa” che lo nutre (difficile pensare che il neonato possa avere fin dall’inizio l’idea di un’altra persona nella sua interezza), e diventa già un traguardo per lui capire che quella cosa (che sia un seno o un biberon) in realtà non fa parte di lui stesso, che si tratta cioè di un’altra persona. Acquisita così la differenza tra l’io ed il non io, il passo successivo sta nel comprendere, con delusione, che il seno (l’oggetto parziale, nel gergo kleiniano) non è sempre a sua disposizione.
È così che, nella visione kleiniana, la mente nasce e si sviluppa, attraverso l’alternanza di presenza e assenza che coincide con il sentirsi appagato o affamato, pieno o vuoto. Questa percezione viscerale diventa presto un’alternanza emotiva di piacere e dolore e poi di amore per la parte buona e di odio per la parte dolorosa che è in sostanza la parte vuota, la parte assente dell’esperienza vitale. La Klein ipotizza una situazione che si complica ancor più quando, secondo lei, la mente del bambino comincia a provare emozioni contrastanti, anche aggressive ed invidiose verso la parte buona del seno, attaccandola con le sue fantasie fortemente distruttive.
È in questa fase che la Klein arriva a concepire un edipo precoce che colloca alla fine del primo anno di vita. Il rendere così precoce quel conflitto significa necessariamente ipotizzarlo e caratterizzarlo per mezzo di visioni arcaiche, primitive e feroci. Una mente appena nata, infatti, non può essere capace di visioni fini o modulabili. Vorrei citare, a tal proposito, le parole di una delle sue migliori allieve, la Riviere, che descrivono bene quest’universo infantile feroce e primitivo: “Arti che calpestano, colpiscono e scalciano; labbra, dita, mani che succhiano, ritorcono, pizzicano; denti che mordono, rodono, strappano, tagliano; bocca che divora, inghiotte ed uccide; occhi che uccidono con uno sguardo, forano, penetrano; fiato e bocca che feriscono con il loro rumore, come già sanno bene le sensibili orecchie del bambino. Si può supporre che l’infante di pochi mesi di età abbia non soltanto la sensazione di esser lui a compiere questi atti, ma anche una sorta di idea di stare facendolo”.
Però intorno a questo nucleo primitivo e parziale dell’esperienza si articola la costruzione di una visione via via più completa delle persone e delle cose. Si vengono così a costituire nel corso del tempo una serie di immagini interiori (di oggetti interni, così li chiama) che rappresentano l’effigie interna (priva cioè di ogni oggettività, non è certo una fotografia!) che il bambino si è costruito di loro, del loro comportamento, delle interazioni avute con loro. Gli oggetti interni non sono altro che l’immagine interiore della relazione che il bambino è riuscito a creare con quella persona. Ognuno di noi attraverso questo complesso procedimento si costruisce un vero e proprio teatro interiore popolato di personaggi. Dalla qualità e quantità di tali immagini interiori che abitano il mondo interno dipende molto del carattere e della personalità che quel soggetto si costruirà.
La Klein parte quindi da alcune acquisizioni di Freud: una parte della mente è inconscia, sconosciuta ma agente; tutto si muove e inizia su quel sottile confine che unisce e separa allo stesso tempo il corporeo e il mentale primitivo, ma in qualche modo se ne distacca percorrendo strade diverse e più ardite. Si potrebbe dire che qui, come origine della vita mentale, ci sono ancora le pulsioni ma queste sono ormai saldamente agganciate alle relazioni. Così la visione dell’uomo si indirizza verso quella di un animale sociale, fortemente condizionato in parte dalle sue pulsioni, ma forse ancor di più dagli incontri che fa nel corso dei primi anni di vita.
È questo che le fa dire che rispetto alla cronologia freudiana tutto è più anticipato e profondo: Freud collocava la maturazione edipica intorno alla fine del quarto anno, lei invece ritiene che già alla fine del primo il bambino affronta l’edipo. E l’affronta con i suoi pensieri primitivi e assoluti.
Su questo tema nacque il contrasto con Freud, meglio con i Freud. Infatti la disputa in realtà fu gestita soprattutto dalla figlia, Anna.
Questa, naturale e tenace custode delle idee paterne, anche lei interessata ai bambini, non accettò mai questa visione così estrema dell’infanzia sostenendo al proposito una teoria meno “spinta” in cui certe acquisizioni sono più tarde e forse meno “drammatiche”. Ma la Melanie Klein, di cui abbiamo già conosciuto la forte personalità, non si piegò mai. Questa diatriba si era trasferita già prima della 2a guerra mondiale in Inghilterra insieme a tutti coloro che furono costretti a lasciare la Germania e l’Austria per le persecuzioni razziali. Impegnò la locale Società di Psicoanalisi, in quelle che si chiamarono “le Discussioni Controverse”. Fu l’occasione in cui, per diversi mesi, si affrontarono, in incontri periodici programmati a tal uopo, le teorie contrapposte, sostenute ed interpretate dalle “squadre” che al proposito si erano formate. Fino a ché molti degli interpreti di quelle discussioni preferirono varcare l’Oceano e trapiantarsi in America e tra queste anche Anna Freud che, pur non trasferendosi mai stabilmente negli USA, ebbe grande influenza sulla psicoanalisi americana, lasciando così campo più libero alla Klein, il cui peso sulla scuola inglese è stato forte e si mantiene tutt’ora.
Vorrei segnalare, per dare uno spunto di attualità, come in alcuni suoi scritti la Klein svolga considerazioni di ordine criminologico. Mi è capitato di ripensarci in questo tempo in cui si legge di uccisioni efferate o di altri simili delitti. Queste stragi potrebbero far pensare che quell’argine morale che Freud aveva assegnato al Super io, non si sia sviluppato o sia del tutto insufficiente. La riflessione kleiniana rafforza e motiva tale ipotesi. Non è che queste persone non hanno il Super io, in realtà se ne portano dentro uno così primitivo, poco sviluppato e per questo feroce che “l’individuo [per difendersi dai suoi attacchi, N.d.R.] può sentirsi spinto a distruggere persone – queste sono le sue testuali parole – e questa spinta coattiva può costituire la base dello sviluppo o di un comportamento di tipo criminale o di una psicosi”.
Vorrei chiudere con le parole di Fairbairn, psicoanalista scozzese, che sintetizza in maniera mirabile le differenze tra Freud e Klein: l’attività primaria dell’Io non è (come dice Freud) la ricerca del piacere spinta dalle pulsioni, bensì (come comincia a dire la Klein) la ricerca dell’oggetto, cioè degli altri, di relazioni, di socialità.
La psicoanalisi con lei, quindi, si sta incamminando sulla strada della relazionalità.
Andrea Friscelli