Che strana stanza di analisi era quella! Si trattava di un locale molto grande con annessa cucina e bagno, usato di solito dal gruppo locale delle Giovani Esploratrici. Era piena di quadri, libri, trofei ed alle pareti erano appese diverse carte geografiche, non solo dei dintorni, ma del mondo intero. Mancava una sala di aspetto e, insomma, tutto sembrava meno quello cui doveva servire. Anche la coppia di persone che lì s’incontravano una volta al giorno, per circa cinquanta minuti, poteva sembrare male assortita. Da una parte abbiamo, infatti, una vecchia signora di circa 60 anni con un’aria severa e professionale, anche se il suo viso grassoccio ogni tanto è attraversato da larghi sorrisi (per rappresentarcela meglio, oggi, si potrebbe dire che ha una lieve somiglianza con la poetessa Alda Merini). Dall’altra invece un bambino, Richard, di quasi dieci anni. Lui è un ragazzino sempre impaurito degli altri, terrorizzato dall’idea di uscire da casa e questo gli impedisce di frequentare la scuola ormai da quasi due anni, nonostante sia precoce e dotato.
A metterli in contatto quei due, capitati in quello stesso paesino per puro caso, è stata una comune conoscente la quale, sapendo che nella casa vicina alla sua si trovava quella signora famosa il cui lavoro è parlare con i bambini un po’ strani, li ha fatti conoscere.
Siamo nell’aprile del 1941 a Pitlochry, piccolo borgo delle Highlands centrali, nel Nord della Scozia. Entrambi i protagonisti sono sfollati da Londra. La guerra è in un momento difficile per l’Inghilterra e molti temono, anche se la speranza di battere il Nazismo è ancora forte, che possa finir male, anche per i tremendi bombardamenti a cui la capitale è sottoposta. Chi può se ne allontana.
Quella mattina Richard era arrivato con qualche minuto di anticipo e così aveva incrociato un altro bambino che aveva la seduta prima di lui. Richard era il figlio più piccolo di una famiglia agiata di Londra, aveva padre, madre ed un fratello maggiore di diversi anni. Nella stanza la signora gli faceva trovare pastelli colorati per disegnare, piccoli giochi: una serie di modellini di navi, trenini ed altri pupazzi con cui inscenare giochi. Ma, quel mattino, la sua attenzione è attirata dalle carte geografiche che inevitabilmente lo riportano alle notizie della guerra.
Commenta che era terribile quello che Hitler stava facendo, indica la Svizzera, dicendo che quel piccolo paese era come circondato dalla grande Germania, poi nota anche il piccolo Portogallo che era amico e neutrale. Poi dice che teme che ci possa essere una collisione tra il Sole e la Terra e che questo possa provocare una grande catastrofe. La vecchia signora, dopo averlo ascoltato, gli parla e dice che la Terra è la mamma e quello scontro che lui teme rappresenta forse qualcosa che avviene tra i suoi genitori, qualcosa che lui teme come catastrofico e che potrebbe distruggere tutti i bambini che si venissero a trovare lì in mezzo. La seduta va avanti così e nel loro parlare compaiono via via anche Paul, il fratello di Richard, Bobby il suo cane, il bambino incontrato all’ingresso della stanza di analisi. Poi emerge la paura di un vagabondo che potrebbe aggredire la mamma e lui, come una volta, quando lui ancora non era nato, era già successo. La vecchia signora, con il suo eccezionale intuito clinico, interpreta quasi ogni cosa che il bambino dice e lui a volte è colpito da quelle parole, a volte invece è in disaccordo e così il discorso tra loro va avanti.
Comincia così una delle più memorabili terapie della storia della psicoanalisi. Per mezzo di quelle sedute la Melanie Klein preciserà meglio alcune delle sue teorie più note e ne ricaverà uno dei libri più apprezzati che uscirà postumo (nel 1961), un anno dopo la sua morte, e porterà il titolo “Analisi di un bambino”. Nel corso di quella terapia che fin dall’inizio si sapeva non sarebbe potuta durare a lungo per via della precarietà della situazione (la Klein tornerà a Londra quattro mesi dopo) Richard produrrà giochi e disegni. Anche su quelli la Klein farà le sue interpretazioni, dando significato ai colori da lui usati e alle forme disegnate, o ai giochi messi in atto. Alla fine Richard tornerà anche lui a Londra migliorato ed in grado di riprendere la scuola. Il caso vuole che di lui e della sua vita, da adulto, si sappia molto e quello che conosciamo ce lo racconta come una persona realizzata e completa, certamente non per i quattro mesi di terapia con la Klein, che al più gli hanno dato un aiuto a superare un momento di impasse.
Nel preparare questa rubrica ho sempre cercato di legare in qualche modo le vicende di vita dei vari autori al loro lavoro teorico, convinto come sono che esista sempre un legame forte tra queste due cose.
Nel caso della Klein questo mi ha portato a riflettere sulla forza di questa donna.
Infatti – mi chiedo – cosa vi potreste ragionevolmente aspettare da una donna che ha vissuto una vita difficile e costellata di lutti e disgrazie? Appesantita da un rapporto pessimo con una mamma impicciona, intrusiva e prepotente; rattristata in giovane età dalla perdita del fratello amatissimo (morto di morte naturale, ma il dubbio di un suicidio non è mai stato del tutto fugato); che si sposa e mette al mondo tre figli rinunciando però, per il carico familiare, agli studi universitari di medicina che poi mai più riprenderà; matrimonio che dopo pochi anni va in pezzi provocando una separazione. Una donna che vive in un periodo storico e sociale travagliatissimo che la costringe a cambiare spesso (almeno tre o quattro volte) città, paese, lingua. Che nella nuova, strana (e sconosciuta ai più, in quel periodo) carriera che intraprende, trova un fiero contrasto alle sue idee proprio da parte del caposcuola, perché i suoi scritti suscitano spesso sconcerto e riprovazione. Che perde per un incidente di montagna uno dei figli maschi, anche lui giovanissimo, mentre la figlia più grande, che sceglie la sua stessa professione, finisce per opporsi in una maniera quasi imbarazzante a lei ed alle sue posizioni, accusandola spesso di volerle male, tanto che mai si riconcilierà con lei neppure in punto di morte.
Che tipo di vita e di atteggiamento verso la stessa – mi chiedevo – ci si può aspettare da una vicenda esistenziale così complicata e difficile? L’ipotesi più semplice sarebbe quella di pensare a momenti di depressione e scoraggiamento (ed in verità ci sono stati, tanto che proprio per curare uno di questi incontrerà la psicoanalisi), magari alternati a qualche deragliamento paranoico basato su una sfiducia “basica” verso la possibilità di buoni rapporti con gli altri. Ipotesi molto più credibili di quello che è stata la sua vita.
Questa donna, infatti, ha saputo reagire e vivere per le sue idee, per il suo lavoro che le ha permesso di creare un corpus dottrinale divenuto una delle pietre miliari nello studio della mente e in particolare di quella del bambino. Tratteggiata in poche righe e con tutte le inesattezze che una simile sintesi si porta dentro, è questa la vita di Melania Reizes, ma da tutti più conosciuta con il cognome Klein, acquisito da sposata, a cui non rinunciò mai, neppure dopo la separazione dal marito August Klein.
Andrea Friscelli
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