“Dall’alto (del monte Amiata ndr ) dei suoi 1738 metri si possono vedere nelle giornate più nitide le cime appenniniche della Toscana, dell’Emilia, della Romagna, dell’Umbria, e delle Marche, si vedono i monti del Lazio, le isole dell’Arcipelago, e poi ancora la Sardegna, e la Corsica”.
Con le informazioni di Rolando Cherubini possiamo asserire che la formazione del Monte Amiata risale al periodo Paleozoico-Quaternario, la sua attività vulcanica si colloca all’incirca in un’età variabile tra i 400.000 e 180.000 anni fa.
Le prime tracce di vita sull’Amiata sono datate tra il 5000 e il 3500 a.C. infatti proprio a questo periodo risale il dipinto che si trova nella cosiddetta Grotta dell’Arciere vicino ad Abbadia San Salvatore e rappresenta un cacciatore armato di arco.
Sicuramente in epoca etrusca a partire dal VI sec. a.C. fu molto frequentata da cacciatori che fondarono alcuni insediamenti nella zona di Vivo D’Orcia e Seggiano.
Numerosi ritrovamenti archeologici, fanno pensare all’Amiata come ad una montagna sacra. In seguito furono i Romani a stabilircisi sfruttandone specialmente le acque termali. Molti i ritrovamenti presso Bagni San Filippo.
Il Monte Amiata fu un antichissimo vulcano, ma prima di eruttare apocalittiche fiammate e incandescenti colate di lava, il monte era probabilmente un’isola in mezzo al mare, un massiccio roccioso “vomitato” dal fondo degli abissi al di sopra del Mar Tirreno. In quel periodo infatti il mare non si limitava a lambire gli scogli dell’Argentario, la tagliata dell’Ansedonia, o i monti dell’Uccellina, ma penetrava ben dentro la Maremma, circondava l’Amiata, e si spingeva nell’entroterra toscano, assediando d’azzurro Cetona, e anche la Montagnola senese, e lambendo i monti del Chianti. Verso l’inizio dell’era quaternaria il mare andò ritirandosi e fu proprio in quello stesso periodo che l’Amiata cominciò a scuotersi, a brontolare, a ruggire spaventosamente, mentre fiotti di lava salivano dal cuore della terra, si sfogavano aprendo un cono eruttivo sulla vetta della montagna, e quindi ricadevano lungo i fianchi e tra le pieghe del massiccio, serpeggiando come fiumi di fuoco. Nel periodo in cui si spense e si placò il vulcano Toscano iniziò ad essere molto freddo (da caldissimo che era), iniziarono grandi piogge, lunghe stagioni di nevi e di ghiacci… da li in poi si crearono tantissime sorgive, laghetti, torrenti e ruscelli che presero a scorrere lungo le sue alture. Questa volta il monte si copriva di un mantello verde, anzi verdissimo fatto di alte foreste, di grandi praterie, di ombrosi rifugi, dove scorrazzava una grande fauna selvatica. Nelle immense foreste montane della Toscana, nelle pianure alluvionali, e nelle terre acquitrinose, pascolavano i mastodonti, gli ippopotami, e i bovidi dalle grandi corna, insidiati dalla famelica tigre con i denti a sciabola.
Il vulcano era ormai in pensione, ma restò il mercurio, restarono i tesori minerali contenuti nelle rocce vulcaniche. Scomparvero i laghetti popolati di microscopiche alghe, ma restò la farina fossile chiamata “latte di luna”. Scomparvero i primi abitatori ma restarono le loro armi di pietra, le memorie della pastorizia, della caccia, delle prime attività agricole, i cimeli dell’Età del Bronzo e del Ferro. E poi le memorie delle generazioni successive, degli Etruschi, dei Romani, delle invasioni barbariche, le abbazie e i romitori dei santi uomini, le rocche e i castellacci dei feudatari, le borgate e i paesi che sorsero all’ombra del colosso: Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Bagnore, Santa Fiora, Bagnolo, Abbadia San Salvatore, Piancastagnaio ecc ecc…
Restarono anche le infinite leggende. Ecco Ratchis, il re dei Longobardi, che va a caccia nelle selve amiatine, che insegue una cerva bianca, e poi ha la visione del Signore che, assiso tra i rami di un enorme castagno, gli parla e gli ordina di costruire una chiesa, e lui obbedisce, fonda l’Abbazia di San Salvatore, e poi vi si ritira a condurre vita monacale. Oppure ecco una bella contessa degli Aldobrandeschi che s’innamora di un cavaliere di Chiusi, valoroso partecipante ai tornei cavallereschi, e che per vederlo più spesso, pensa di organizzare lei stessa feste e tornei, e fa allargare dai boscaioli una radura in mezzo ai faggi, che poi si chiamerà “il prato della contessa”. E ancora ecco il valoroso e intrepido conte Guido Sforza che affronta da solo il terribile drago dell’Armata, lo uccide, e ne regala la testa ai frati del Convento della Selva dove ancora il cimelio si conserva. Per continuare ancora con un altro drago sconfitto dalla Santa Vergine (la “Madonna del drago”) mentre tenta di impedire a un sacerdote di portare i sacramenti a un moribondo facendolo cadere tra Castel del Piano e Seggiano.
Ci sarebbe anche la leggenda della Grotta di Merlino, situata nei boschi di castagni presso il paese di Arcidosso, si tratta di un antro che la tradizione vuole ricondurre a rifugio del celebre mago Merlino. Gli storici però pensano che in realtà la grotta sia stata il riparo di un ribelle fiorentino in fuga dagli Spagnoli, che diceva di essere uno stregone per tenere alla larga i curiosi, dando così vita alla leggenda.
Poi sopra ad Abbadia San Salvatore si può osservare dalla strada che porta verso la vetta il sasso di Dante, chiamato così proprio perché assomiglierebbe al profilo di Alighieri.
In fine per sfatare un finto mito c’è da ricordare che fin dai tempi passati girava la “bufala” che l’attività geotermica salverebbe l’Amiata dai terremoti, tanto è vero che, (racconta sempre la favola) da quando sono state costruite le centrali non ci sarebbero più stati terremoti. Non è assolutamente vero, nonostante l’attività geotermica sia preziosa per più motivi, in primis come fonte rinnovabile di calore ed energia, basti pensare che da fine anni ’70 ad oggi nel comprensorio del Monte Amiata si sono registrate centinaia di scosse.
Gabriele Ruffoli