Nicolò, Duccio e il senso delle cose è la rubrica settimanale di giornalismo narrativo su Siena proposta da SienaNews. Gestita da due giovani, Nicolò Ricci per la fotografia e Giada Finucci per la scrittura, vuole portare lo sguardo delle nuove generazioni sulla città. Il suo scopo è quello di valorizzare luoghi di Siena attraverso la fotografia e il racconto.
Uscivamo di casa, mio nonno chiudeva dietro di sé il portone e piegava le ginocchia per stringermi la mano. Invece di imboccare la strada per la scuola ci dirigevamo verso il bar, lui a prendere il caffè e io un cornetto inzuppato nel latte. Seduti al tavolino, lui a gambe incrociate, cappello sulla testa e una calma abissale in cui sprofondare, io che sognavo un mondo in cui i bar non tenessero i giornali e mio nonno si sbrigasse. Era sabato: e per me, al contrario di lui, era il giorno più impegnato della settimana.
Come un cane al guinzaglio che conosce a menadito la meta del suo andare camminavo sempre un passo avanti a lui, trasportando il suo incedere lento. Arrivati in San Francesco mi slegavo dalla sua mano e correvo incontro ai giochi. Quello che fino ad allora era sembrato un andare spavaldo e sicuro, iniziava a tentennare davanti alla massa di bambini che scomposta occupava l’intero parco.
“Su, vai” – mi spronava mio nonno – “io rimango qui”. Sotto l’aurea protettiva del suo sguardo iniziavo a intrecciare le dita piccole e tozze e a nasconderle dentro i miei riccioli mori, aspettando che un gioco si liberasse e divenisse per me.
Un sabato d’aprile un picchiettio sulla spalla bussò alla porta della mia timidezza. Una bambina nuova, che non avevo mai visto, andava in cerca di qualcuno che pesasse più o meno quanto lei, per poter giocare senza troppo squilibrio sul bilanciere.
Dopo avermi squadrato da capo a piedi, si rivolse a me con una voce stridula ma dolce: “mi sembra che tu vada bene”, asserì.
“Lo credo anche io” le risposi con tono sicuro, dopo aver rivolto un fulmineo sguardo di promemoria al mio esile corpo. Salimmo così ai lati opposti della trave, e in effetti eravamo piuttosto in equilibrio. Iniziarono le sue ballerine, a spingere contro il terreno e alzarla su, nel mentre che con un braccio si teneva stretta alla maniglia d’acciaio e con l’altro sfiorava le fronde di cedro, giurando di esserci riuscita. Io la guardavo da terra sorridendo e poi toccò a me, alzarmi grazie al suo peso. Non pensammo agli scivoli, né ad altri giochi. Il tempo si era fermato, o passava senza di noi, in quell’andirivieni di alti e bassi che teneva in equilibrio la nostra mattina. Richiamati dalle grida di mio nonno, che prometteva dolci e altre cose per lui impensabili pur di farci scendere, il resto del parco acquistò di nuovo, all’improvviso, consistenza e ci guardammo attorno: una schiera di bambini indispettiti attendeva di giocare.
Le campane suonavano le 12 quando ci incamminammo verso casa. Interrogai mio nonno sull’accaduto: era piuttosto saggio, avrebbe saputo rispondermi. “Cos’è successo?” chiesi a lui e a me.
“L’equilibrio non è che un gioco a due sull’altalena, Duccio” disse e continuò a fischiettare.
Aveva compreso. Allora ero piccolo, ma ancora oggi quando il tempo passa senza che io riesca ad afferrarlo e me sto fuori dal mondo come da un parco giochi troppo occupato, cerco qualcuno con un peso simile al mio e gli chiedo di fare due passi in Piazza San Francesco.
Duccio
Testo di Giada Finucci
Foto di Nicolò Ricci