Ci sono romanzi, che parlano della vita di una persona e di una persona soltanto, quella del personaggio principale della vicenda, il cui rapporto con l’autore reale (in carne e ossa) può essere più o meno stretto, più o meno labile, ma, in ogni caso, non è mai di assoluta identificazione. Ci sono romanzi, invece, che esprimono i tormenti, le aspirazioni, le lotte, le vittorie e le sconfitte di un’intera generazione. In questo caso, il protagonista vive in sé e riflette tante altre esistenze. Buona parte della letteratura del Neorealismo partecipa di quest’ultima caratteristica, avendo nella Resistenza e nelle condizioni arretrate di tante zone rurali d’Italia il terreno comune di una scrittura impegnata, corale, edificante e molte volte periferica, nella sua capacità documentaria, rispetto al centro del Paese, come ben vide Italo Calvino. Anche l’ultimo romanzo di Paolo Goretti, presenta alcuni punti di contatto con l’opera di Pratolini, di Jovine, di un certo Vittorini (“Il garofano rosso”), di un certo Pavese (“Il compagno”), di un certo Moravia (“Racconti romani”), sebbene e per l’arco temporale sotteso alla storia narrata e per certe incursioni nel campo della musica e della filosofia, tipiche della forma saggio, “Camminando sotto l’uragano” finisca per sfondare la barriera del Neorealismo, sottraendosi, così, ad ogni definizione di comodo. Il protagonista è Duccio, un ragazzo senese, che all’inizio del romanzo è un adolescente di belle speranze, chiamato a fare i conti con l’atmosfera plumbea del Ventennio fascista. Crescere, per lui, significherà non solo attraversare il male, tanto il male storico quanto il male morale, ma anche imparare che la tenacia nell’assecondare la propria vocazione profonda e nel fronteggiare i colpi della sorte costituisce una delle poche opportunità concesse all’uomo per riscattare il mondo dalla propria insignificanza. Quella che segue è la pagina iniziale del romanzo, che offre al lettore una prima descrizione di Duccio.
“L’inverno del 1934 era al termine, ma gli ultimi giorni erano stati di un rigore che i vecchi, forse esagerando come spesso capita, dicevano di non ricordarne uguali. Danilo il carbonaio si era adeguato con scaltrezza all’aumento delle richieste di legna da ardere e stava accumulando un tesoretto a colpi di rincari. Ogni giorno la strada risuonava per le lamentele dei clienti che ritenevano ingiustificato quell’aumento repentino dei prezzi. A quel vocio Duccio interrompeva lo studio affacciandosi dalla loggia e non riusciva a comprenderne il motivo finché la mamma, ragioniera, non gli spiegò a grandi linee i principi delle leggi del mercato. Da poco aveva compiuto quattordici anni e nonostante l’età ancora acerba dimostrava un’intelligenza vivace e una buona maturità. Un ciuffo di capelli castani e pieni di ritrose gli ricadevano ribelli sulla fronte e non ne volevano sapere di ubbidire al pettine. Anche gli occhi erano castani, grandi e risaltavano in un volto dai lineamenti regolari ad eccezione degli orecchi, a sventola, che sembravano quasi volersi anticipare nella loro crescita, costituendo facile bersaglio degli sberleffi di Giulio, il fratello maggiore. Fu in quel periodo che Duccio si prese una brutta tosse. All’inizio la mamma ne attribuì la responsabilità a quell’ondata di gelo improvviso che aveva sorpreso un po’ tutti. Ben presto però alla tosse si aggiunse una febbricola che si manifestava puntuale ogni sera ed insieme comparvero una stanchezza eccessiva ed una disappetenza che non avevano alcuna intenzione di andarsene. Tutti questi sintomi cominciarono a preoccupare il medico che veniva sempre più spesso a visitarlo”.
Paolo Goretti, Camminando sotto l’uragano, Siena, Betti, 2016
a cura di Francesco Ricci