Renato Serra, Carlo Emilio Gadda, Georg Trakl, Louis-Ferdinand Céline. Quattro nomi, fra i tanti, di chi la Grande guerra l’ha vissuta e l’ha raccontata. Serra vi trovò la morte, colpito nel corso di un combattimento sul monte Podgora, vicino a Gorizia, Gadda vi perse l’amatissimo fratello Enrico, il poeta austriaco Trakl, tenente in un reparto di sanità, fu testimone di una serie di orrori – come quella volta che vide la piazza, davanti all’infermeria dove lui assisteva da solo i feriti, ridotta a una sorta di selva di contadini ruteni impiccati – , Céline, infine, arruolatosi volontario appena maggiorenne, combattè per tre anni in missioni molto rischiose (venne anche decorato), come quella nelle Fiandre Occidentali, dove rimase ferito gravemente, al braccio e alla testa. Quattro nomi di uomini, quattro titoli di libri ispirati a quel conflitto.
Serra ne trasse il “Diario di trincea”, Gadda riversò la sua esperienza in “Giornale di guerra e di prigionia”, Trakl la pose al centro di una delle sue liriche più alte, intitolata Grodek, dal nome della cittadina polacca in cui nel settembre del 1914 russi e austriaci si affrontarono cruentemente, Céline parlò di sé nel suo primo romanzo, “Viaggio al termine della notte”, celandosi nella figura del protagonista, Bardamu. Ma, in realtà, occorrerebbe che un libro venisse scritto per tutti coloro che parteciparono al conflitto, per ognuno dei diciassette milioni di caduti, fra militari e civili, per ognuno di coloro che ce la fecero a salvarsi e a tornare a casa, dalle loro famiglie, perchè ciascuno di loro era un mondo, un vincolo di affetti, un bene prezioso e unico, irripetibile e insostituibile. Il passo che segue, appartenente al capitolo iniziale, è tratto dalla nuova edizione di “Giovanotti in trincea” di Paolo Goretti, che ricostruisce le vicende del padre dell’autore:
“Dal Comando del Reggimento per il signor tenente: è urgente!”. Cesare si affacciò all’apertura della tenda con un cattivo presentimento; il caporale portaordini salutò e gli porse una busta. “Signor tenente, dovrebbe rimettere il suo cronometro”. Lo chiamavano così nonostante fosse solo un aspirante ufficiale. Capì subito che si doveva preparare ad un nuovo assalto, ma non rimase sorpreso, in fondo se lo aspettava. Trasse dal taschino l’orologio, un bel Vostoc ultimo modello con la scritta Boc Tok in cirillico, che gli avevano regalato Gemmina e Umberto, i suoi cugini, quando era stato ammesso al corso di ragioneria. Era tanto il desiderio di regalarglielo che erano andati ad aspettarlo all’uscita dell’istituto, al palazzo Marsili, in via di Città, prima di conoscere l’esito dell’esame. Ci aveva messo dentro la fotografia della sua famiglia e quando la solitudine lo assaliva apriva la cassa e guardava a lungo quella foto. “Sono le diciannove trenta minuti e trenta secondi”, continuò il portaordini. Lui portò rapidamente le lancette all’ora estatta e rimise l’orologio nel taschino del gilet. Il caporale salutò, poi saltò in bicicletta e corse via.”
a cura di Francesco Ricci
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