La saggezza degli antichi invitava a trascorrere la vita in modo da poterne un giorno uscire come un commensale sazio abbandona il banchetto (“ut plenus vitae conviva”), senza inutili rimpianti, senza dolorose malinconie. Varcare l’ultima soglia consapevoli che quanto era nelle nostre possibilità, nei nostri desideri, lo abbiamo fatto e che, soprattutto, abbiamo scelto noi di farlo. Chiudere gli occhi con l’orgoglio di chi sa di avere abitato la vita e di non esserne stato uno stanco spettatore, di chi sente di averla posseduta e di non averla subita come un qualcosa di fastidioso e di estraneo. Eppure le nostre piccole e banali esistenze sono lì a ricordarci di come spesso la morte ci sorprenda non sazi di vita, ma affamati di vita. E questo perché sono troppi i “no” che le abbiamo detto, troppe le strade che non abbiamo imboccato. Eppure erano davanti a noi, si aprivano come si apre la corolla di un fiore al sole, chiedevano di venire percorse per almeno un tratto. Ma noi. Noi non le abbiamo imboccate quelle vie. Per pigrizia, per calcolo, per superficialità, per stupidità neppure le abbiamo guardate, figuriamoci se le abbiamo considerate, fosse anche solo per qualche istante. Abbiamo preferito prendere in prestito – così come si fa con l’abito buono per la festa – una professione, una storia d’amore, un hobby, una cerchia di amici, salvo poi accorgerci, quando ormai era tardi, che non erano nostri, che nulla di quanto avevamo fatto, pianificato, organizzato, era intimamente nostro, dal momento che non rispondeva (come avrebbe potuto?) alla vocazione – ciascuno di noi reca in sé una vocazione – che ci parlava, inascoltata, dal cuore e dentro il cuore; per tutti quegli anni la nostra esistenza altro non era stata che un pigro adeguarsi al senso comune, alle aspettative comuni, a quella che Martin Heidegger in una straordinaria pagina di “Essere e tempo” definì “la dittatura del Si”: “Ce la spassiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica”. E la vera tragedia non consiste mai nel fatto che la nostra vita avrebbe potuto essere diversa, ma che sarebbe stata migliore, in quanto sicuramente più piena, più voluta, più autentica. Questa scoperta, sempre tardiva, costituisce il filo rosso che unisce i racconti che compongono “Piccoli equivoci senza importanza” di Antonio Tabucchi. Il passo che segue è tratto da “Stanze”.
“Amelia sa che odia quella fotografia. Ha imparato a odiarla molti anni dopo, quando ormai odiarla non aveva più senso. Lo sa e preferisce non sapere il vero perché. Preferisce che di quel lontano momento che la lastra catturò, la infastiscano particolari insignificanti: il suo sorriso così infantile e quasi stupido, la spalla destra di Guido leggermente cadente che denota forse un lieve imbarazzo: cose così, insignificanti. E poi ci sono altre due fotografie accanto a questa, ma queste non le odia, fanno parte della sua vita vera, quando le scelte ormai erano fatte. Le scelte. Quali scelte?, pensa Amelia camminando e scostando col bastone un tralcio di rovi che dal ciglio ha invaso il sentiero. Da un po’ usa il bastone, non perché sia così vecchia, cammina molto bene e non ha bisogno di sostegni: ma le piace uscire la domenica pomeriggio col bastone che fu di suo padre; è una canna d’India elegante e snella, con un pomo d’argento a forma di piccola testa di cane. Quali scelte”.
Antonio Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, Milano, Feltrinelli, 1985.
a cura di Francesco Ricci