Dopo la Legge Fornero non ci sono stati interventi davvero strutturali sulla spesa pubblica pensionistica; riforme in grado, cioè, di allontanare il momento in cui il numero di lavoratori occupati, essendo inferiore ai pensionati, porterebbe a un problema serio: non avere i soldi per pagare gli assegni previdenziali in corso.
Tuttavia, dal 2019 ad oggi abbiamo assistito a varie misure sperimentali rinnovate nel tempo: le Quote, prima 100, poi 102 e infine 103; l’Ape volontario non rinnovato; l’Ape sociale, Opzione Donna. Misure che potrebbero essere riproposte, che, se da sole non incidono significativamente, combinate con l’opzione riscatto di laurea e la RITA, potrebbero, invece, portare un problema a carico del sistema, aumentando l’importo complessivo delle pensioni da erogare.
La prima riflessione da fare riguarda il perché dell’anticipo. Insomma, in diversi non vogliono aspettare gli attuali 67 anni della pensione di vecchiaia, e, a volte, nemmeno i probabili 63 o 64 di quella anticipata quando hanno già lavorato più di quarant’anni.
La ragione è la qualità della vita, tanto che l’esigenza di anticipare è più marcata, e riconosciuta dalle norme, in caso di lavori gravosi e usuranti, così come in presenza di madri con figli, o donne che vertono in particolari condizioni meritevoli di tutela (prestino assistenza, siano riconosciute invalide, siano state licenziate o lavorino in aziende in crisi come accade per Opzione Donna).
Misure di anticipo rese nel tempo più stringenti e meno appetibili rispetto all’assegno effettivo incassabile in attesa della pensione di vecchiaia. Il motivo è semplice: dipende dai soldi che, in previsione, non solo in un’ottica di breve periodo ma nel lungo periodo dell’aspettativa di vita in aumento, saranno a carico del sistema. Più anticipi, più soldi da pagare, in un quadro di denatalità consolidata e di occupazione, sia anche solo in termini di numerosità prospettica, in riduzione.
Allora non sorprende che, nell’attuale manovra di bilancio, le valutazioni si spostino verso il dare incentivi per restare al lavoro. Mi riferisco a un pacchetto di misure, non ancora scritte, orientate alla possibilità di restare al lavoro nel pubblico servizio, per uno o due anni successivi al raggiungimento del diritto alla pensione.
Non sorprendono nemmeno i rumors su un potenziamento della previdenza complementare. In una cornice in cui l’inflazione del 2024 dovrebbe attestarsi su valori ben più bassi rispetto al 2022 e al 2023, così da diminuire il costo delle rivalutazioni da corrispondere sugli assegni previdenziali in pagamento.
Vedremo se ci sarà davvero questo cambio di passo verso l’incentivo a non andare in pensione.
L’alternativa, a mio avviso, sarebbe peggio. Ritoccare o eliminare, per esempio, la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata, che oggi è un’opportunità per tanti di guadagnare qualche anno sull’uscita dal mondo del lavoro, privilegiando quella qualità che vale più del denaro accantonato e che fa usare quel tesoretto in attesa della pensione di vecchiaia, mantenendo stile di vita e impegni presi in serenità.
Come sempre, in questa rubrica, vigileremo per cercare di comprendere quali alternative si aprono.
Per costruire una vita di qualità. Perché in quel luogo, la pensione, ci staremo per almeno vent’anni!
Maria Luisa Visione