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Riccardo Benucci, Il risveglio di Horatio

L’ultima fatica letteraria di Riccardo Benucci, “Il risveglio di Horatio”, è, in primo luogo, un raffinato, elegante, piacevolissimo gioco letterario. Si sottrae ad ogni definizione di genere, perché occhieggia e compendia diversi sottogeneri del romanzo. Ad esempio, l’inizio (“Quando Horatio von Stiffel, accademico di Prussia, giunse a Siena la notte del 6 dicembre 1837, non trovò nessuno ad aspettarlo”) rimanda, con la sua cura per le coordinate temporali, al romanzo storico e al romanzo realista, ma il linguaggio, colto e sceltissimo, in molte pagine acquista una sua autoreferenzialità che lo allontana da ogni finalità mimetica o descrittiva di luoghi, azioni, fatti, sentimenti. Analogamente, la caratterizzazione di alcuni dei personaggi della vicenda, dietro la quale si coglie un’attenta opera di documentazione da parte dell’autore in relazione alla società senese e tedesca della prima metà del XIX secolo, coesiste con la creazione di figure che rimandano al Romanticismo nordico e al genere fantasy. Penso, ad esempio, a quella del cippitello Genezio, lo gnomo simile a un funghetto che percorre le Crete innevate: “Alto un soldo di cacio, trasparente, con l’immancabile vela colorata sul gonfio del capo, si muoveva fra i dossi e i solchi della semina saltellando”. E lo stesso può dirsi per quanto riguarda lo spazio del romanzo che, sull’asse Siena-Kassel, vede coesistere luoghi reali e luoghi fiabeschi, vale a dire riconducibili al genere della fiaba in senso lato (la locanda, il laboratorio dello scienziato, la palude). Eppure, una volta concluso “Il risveglio di Horatio”, accanto al piacere suscitato dalla vicenda (la sua orchestrazione, il suo epilogo) e dalla scrittura, veramente pregevole e che richiede grande complicità da parte del lettore per la sua natura intertestuale, a prolungarsi è anche un altro tipo di eco. Un’eco che inerisce non al piano della struttura o dello stile dell’opera, bensì a quello del sentimento. C’è, infatti, molta poesia in questo libro ed è una poesia generata dalla consapevolezza del destino di consunzione che avvolge l’esistenza, ogni forma di esistenza. Una civiltà, un lembo di campagna, un uomo, un cippitello: niente dura, niente permane. È per questo che “Il risveglio di Horatio” è, tra le altre cose, anche un bellissimo romanzo del rimpianto. Il passo che segue costituisce il capitolo iniziale.     

“Quando Horatio von Stiffel, accademico di Prussia, giunse a Siena la notte del 6 dicembre 1837, non trovò nessuno ad aspettarlo. La cosa gli fece piacere, come nel dormiveglia un impiastro di lino e vento. Era troppo stanco per stringere una mano. Desiderava soltanto una corazza e un letto. L’alito spento del braciere, la paterna difesa d’una finestra sprangata. Tutto meno che vivere. Il pievano Guido Balzerani, tipo rubicondo e sempliciotto, lo aveva atteso per ore nello scuro antro della Locanda dei Magi, calamitando gli sguardi dei radi clienti. Le disposizioni dell’Arcivescovo erano state chiare: “Non muoversi dall’albergo fino all’arrivo del botanico berlinese. Farlo sistemare in camera e rientrare in San Giovanni”. Ma quando, trascorsa da un bel pezzo la mezzanotte, il Balzerani venne rapito da un conato di sonno e immaginò il tepido ventre d’un bicchiere da gustare in canonica, la severità del Superiore si stemperò in un lontano ticchettio di passi. Il religioso si alzò a fatica, bisbigliò qualcosa di simile a un “devo andare da un ammalato” al portiere della locanda – classico corvo impagliato – e uscì nel gelo di una città appena coperta di neve. Guardando fisso l’arco dell’Antiporto, pensò alle stranezze degli scienziati e degli artisti, gente che non rispetta mai gli appuntamenti e di cui è bene non fidarsi! Col suo dito più tozzo unse l’umore dell’aria. “Domani tempesta”, sentenziò. Fu la nebbia a ingoiarlo, nero gambero in calice brinato. Non si accorse della veghissima luna. Mica era un poeta. Diavolaccio d’un chiappaerbe alemanno”. 

Riccardo Benucci, Il risveglio di Horatio, il Leccio, Siena 2018

Francesco Laezza

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