Storie di ordinaria malasanità che riescono a volte ad avere un risvolto positivo: dopo quasi 40 anni, una donna senese ottiene giustizia e il risarcimento da parte del Ministero della Salute per aver contratto l’epatite C con trasfusioni, in ospedale. Oggi, la sentenza del giudice Delio Cammarosano del tribunale civile di Siena, è quasi storica e degna conclusione del lavoro certosino dell’avvocato Enrico Troccoli, che non si è arreso alla precedente giurisprudenza ma è riuscito a dimostrare il nesso causa effetto a distanza di trent’anni (2010) dalle trasfusioni, quando per la legge sarebbe stato tardi per farlo. E così ha permesso che fossero riconosciuti i diritti della signora Russo, che nel 2001 aveva scoperto tutto: “L’epatite è una malattia silente e la signora Russo si è aggravata dopo diversi anni – spiega l’avvocato – . Abbiamo dimostrato in giudizio appunto che i valori dell’epatite possono modificarsi e la malattia può trasformarsi da silente a importante. Non bisogna dunque fermarsi alla data in cui il soggetto accerta di avere la malattia ma a quella in cui la malattia diventa importante”.
Bisogna fare un passo indietro, al 1990 e all’ospedale Burresi di Poggibonsi. E’ qui che ha inizio la vicenda: Clementina Russo si trova in ospedale per partorire. Avrà bisogno di trasfusioni ma per lei, queste trasfusioni con sangue infetto saranno l’inizio di un calvario che dura ormai da quarant’anni: è così che Clementina Russo ha infatti contratto l’epatite C.
“Nel 2010 la struttura dove sono state effettuate le analisi ha accertato in maniera chiara che il grado di epatite si era innalzato in maniera importante, tanto da farlo rientrare, secondo il giudizio della commissione medica, nel giustificato indennizzo a Clementina Russo – prosegue l’avvocato Troccoli – . Inizialmente le richieste fatte dalla signora sono state tutte rigettate perché è stabilito che queste andassero fatte entro i tre anni dalla scoperta della malattia (termine ultimo sarebbe dunque stato il 2004, ndr).
Una sentenza importante che dà speranza a tutti quei soggetti (tantissimi i casi che si sono verificati in tutta Italia in quegli anni) che hanno contratto malattie a seguito di trasfusioni di sangue infetto. Il che non è così banale: è la vita che cambia all’improvviso, la salute che peggiora in modo irrimediabile e irreversibile, la difficile convivenze quotidiana con tanti, troppi effetti collaterali..
Una sentenza, dicevamo, con la quale è stato riconosciuto un diritto all’indennizzo che fino a quel momento era stato rigettato dalle commissioni mediche. Le quali rispondevano che “Le relative richieste erano state fatte erano fatte oltre i tre anni previsti dalla normativa. Noi siamo riusciti a dimostrare che i tre anni non decorrono dal momento della scoperta della malattia ma dal momento in cui essa diventa importante. E’ il dato clinico da prendere come punto di riferimento”.
Una storia che dà speranza anche grazie al lavoro di un giovane avvocato che non si è arreso come molti altri colleghi hanno fatto fermandosi alla giurisprudenza esistente. “Nel caso della signora Russo ho lavorato molto sull’accertamento del dato clinico della malattia al 2010 e non al 2001, quando il dato clinico era certo. E’ da quella data che la salute della signora è precipitata. Il mio primo caso analogo, l’ho approfondito perché si sta aprendo uno scenario ampio e importante sulla materia, regolata dalla legge 210/92. Sono tantissimi i casi come quelli della signora Russo e vanno approfonditi prima di poter dare risposte certe sulla possibilità di ottenere risarcimenti”.
Eppure il Ministero della Salute non ha certo ceduto facilmente. Se fosse così semplice, tutti potrebbero ottenere un indennizzo: “Infatti, nonostante la notifica della sentenza e l’invito bonario a pagare somme che spettano di diritto alla signora, siamo dovuti ricorrere al Tar attraverso il giudizio di ottemperanza per chiedere al Ministero della Salute di pagare la signora. A questo punto è stato nominato commissario ad acta il prefetto e qualche giorno fa siamo riusciti, dopo cinque anni di battaglie tra tribunale e Tar”.
Il Ministero della Salute cercherà in ogni modo, naturalmente, di evitare questa emorragia di fondi ma diversi soggetti in Italia, ormai, si sono già rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo perché venisse riconosciuto il pagamento delle somme spettanti secondo giudizio. Un indennizzo che non rende certo la salute perduta ma certe sentenze ripagano un po’ del dolore e dell’amarezza e premiano giovani avvocati coraggiosi che guardano oltre la normativa.
Katiuscia Vaselli