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Siena e le parole perdute nel tempo – gli anni di Federigo Tozzi

Oggi, per la rubrica delle parole perdute nel tempo, vi racconto un fatto che mi è realmente accaduto proprio stamani e che probabilmente è stato un segno del destino. Per questo farò la mia narrazione come se fossimo al 21 marzo 1921, cercando di usare la terminologia del nonno che era un modesto popolano che amava la famiglia e la città.
La settimana appena “ita” si chiude con una triste notizia. Quando “mi so destiato” (alzato dopo il riposo della notte) e messo i piedi sullo “stratino” (tappetino scendiletto), le campane della chiesa qui vicina si sono messe a “suonare a ciccia fredda” (suono lugubre, a morto). Non so chi sia quello che “uscirà pe’ i piedi” da casa, ma “mi fa idea” che diranno che è stato il “virusse”. Boh. Mi garba pensare però che tutto questo “scampanìo” sia stato anche un tributo al nostro Federigo Tozzi che proprio oggi, 101 anni fa, ci lasciava dopo aver scritto tanti racconti diventati capolavori come Con gli occhi chiusi. Io me lo immagino Tozzi “andare via di piedino” da casa sua ai Cappuccini per quelle lunghe passeggiate in giro per la città e la campagna. E so sicuro che che “smantaciava” (respirava in modo difficoltoso, sbuffare per l’affanno come un manticce) e “smanettava” “ciabattando” da solo come spesso fanno quelli che non vogliono nessuno “fra i piedi”. Tozzi era uno di quelli “quando a nozze, quando a grilli” (quando tanto, quando niente), ma il “poro” Federigo che oggi riposa al Laterino, se “attaccava la chiaranzana” (iniziava un discorso farcito anche di attacchi o di lamentele) era “più lungo della camicia dello zi’ Meo” (discorsi lunghi e spesso noiosi). Con l’amico Domenico, che a detta della gente del tempo era “come uno sbadiglio di ciu’o e co’ denti bacati” (metafora per dire brutto), fondò il quindicinale La Torre e ha creduto fortemente nel suo talento tanto che alla fine… “o dente o ganascia” (rischiare il tutto per tutto), ha avuto ragione. Grazie alla bottega del babbo, proprio lì all’angolo di via de’ Rossi, non ha sentito il “morso del ciuco” (in questo caso non ha patito la fame) ed ha potuto studià, ma spesso chiappava (prendeva) dei “lisci e bussi” (brutti partaccioni) e anche qualche colpo di giannetta (bastone di legno che serviva per passeggiare) che alla fine pareva un “ghinghillozzo” (una altalena) da come si muoveva. Col passare degli anni ha imparato la lezione, faceva “come la gatta di Masino” (faceva il furbo), obbediva a tutto e dopo aver “giostrato” (lavorare senza sosta) mattina e sera ed aver detto “tante volte bonanotte per poi andà a dormì nel forno” (si dice delle persone indecise), finalmente ha fatto “come il Baglioni” (è andato via levandosi dai c…) ritagliandosi autonomia e tranquillità. S’è anche “maritato” con Emma, una “bella sposa” da cui ha avuto un figlio ed è poi diventato quello che oggi tutti conosciamo. Quando morì, in quel marzo 1920, venne accompagnato al camposanto dai “cucculi” ed oggi la sua tomba ha sempre un fiore fresco, non solo per le “ricordanze”, a testimoniare la sua grandezza che rende fiera la nostra “Sienina cara e benedetta”.

Niccolò Bacarelli

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Niccolò Bacarelli

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