Stanno per uscire a giorni in libreria alcuni lavori che raccontano storie vissute nei manicomi.
Vorrei citarne tre: il primo firmato da Vincenzo Coli e Maurizio Gigli, “Voci dal silenzio” dovrebbe essere presentato entro febbraio, poi “Il villaggio delle anime perse”, del sottoscritto, che raccoglie ventidue storie del San Niccolò, illustrate dalle bellissime tavole disegnate da Riccardo Manganelli. Le storie sono già comparse sulle colonne di Siena News (nella speciale rubrica ‘figlie di Freud’ dedicata alle storie del manicomio) e sarà in libreria entro il mese di marzo. Infine ricordo un altro testo, quello di Alessandra Cotoloni “Il diario di pietra” che racconta la storia di Fernando Nannetti, il paziente di Volterra che nel corso del suo ricovero istoriò le pareti di quel luogo con una sorta di cosmografia fantastica da lui ideata. È anche possibile che ne stia trascurando qualche altro, a testimonianza di un rinascente interesse per la vecchia Psichiatria manicomiale.
Credo che le motivazioni che spingono diversi autori a scrivere su tale argomento, rispolverando a volte storie vecchissime ed ambienti come quelli degli ex manicomi ormai dismessi (qualche volta riciclati, qualche volta tenuti in un colpevole abbandono) siano di vario tipo: interessi storici, riflessioni più specialistiche sulla storia della medicina ed in particolare su quella della Psichiatria, la voglia di raccontare vite fino ad ora nascoste ed ignorate. Qui a Siena non è certamente secondario il fatto che il 2018 presenta un formidabile incrocio di date: il bicentenario della fondazione del San Niccolò, i quarant’anni della legge Basaglia, il quasi ventennale (lo sarà nel 2019) della definitiva chiusura del manicomio. Tanto è vero che alcune presentazioni dei libri sopra ricordati rientrano nelle manifestazioni che il Comune nell’ambito di “Siena Citta Aperta” ha organizzato per celebrare il bicentenario.
Ma forse, soprattutto, prevale in tutti questi lavori una motivazione etica e restitutiva.
Lo dice benissimo, per esempio, Coli nella sua introduzione: “È il racconto di uomini e donne verghianamente “vinti” e costretti – alla lettera – a scomparire, a perdere perfino il diritto alla pietà del mondo di fuori. Noi questo diritto lo restituiamo con lo strumento disarmato e tuttavia vincente della narrazione. Per quel che può servire.”
Non ci siamo scoraggiati per quella realistica riflessione: “per quel che può servire” e in diversi abbiamo sentito questa spinta riparativa verso un’umanità che è scomparsa agli occhi del mondo e che non ha avuto quasi mai neppure il riconoscimento delle sofferenze patite. Con la convinzione che soprattutto il racconto delle loro vicende di vita, a volte banali, a volte invece romanzesche, sia uno dei modi più diretti di rappresentare quelle sofferenze. Non voglio negare l’importanza di altre impostazioni di ricerca e di studio. Tutto serve a capire meglio, adesso che un po’ di tempo è passato, il senso di quell’universo complesso che fu il mondo della Psichiatria manicomiale. Troppo spesso negli anni passati il tema è stato liquidato o con giudizi sommari, spesso gli stessi che servirono a sostenere la lotta antiistituzionale, o all’opposto con santificazioni del tutto improprie.
Come spesso succede quando si spengono i fuochi, le situazioni appaiono meno nette, più complicate e quella complessità va investigata e raccontata in un modo che sia rigoroso ma anche accattivante. Farlo raccontando le storie ci fa capire alcune cose, ma certo non tutto. È arrivato il momento di studiare e di capire, sfruttando gli enormi archivi che abbiamo a disposizione e che rappresentano spesso vere e proprie miniere di dati.
Nei giorni recenti di celebrazione della Shoà, si è parlato spesso di pietre d’inciampo. Sono quei cubetti di pietra che vengono installati secondo un’idea, geniale, dell’artista tedesco Gunter Demnig e che hanno su una faccia il nome di qualche deportato di cui non esiste neppure una tomba. Se ne trovano sempre più spesso in Europa ma anche in America Latina, a ricordo dei “desaparecidos” di tutte le latitudini. Sono posizionate davanti alle abitazioni degli scomparsi, riportano nome, cognome, data e luogo di scomparsa. Vengono piazzati in non perfetto allineamento col piano della strada e rischiano di essere davvero un inciampo per chi non le nota. Ma quell’inciampo, se avviene, servirà finalmente a ricordare il nome di uno sconosciuto, magari a incuriosire ed a svegliare l’interesse su quella persona.
Allora, con le dovute proporzioni, credo che la nostra aspirazione sia quella di scrivere “storie d’inciampo”. Del resto la vicinanza con gli ebrei deportati e con i campi di sterminio è meno peregrina di quanto si possa pensare. Basta ricordare che il nazismo ideò un progetto specifico di sterminio o sterilizzazione dei pazienti psichiatrici, ebrei e non. Si chiamò Aktion T4 e rappresentò il punto più basso e abominevole di una Psichiatria asservita al potere, che abdicando al suo ruolo terapeutico, si limitava a indicare quali soggetti dovevano essere sterminati e quali “solo” sterilizzati in nome della purezza della razza.
Quindi vogliamo creare, con le storie che raccontiamo, un inciampo, solo metaforico, ma che allo stesso modo serva a svegliare curiosità e memoria di chi ha spesso voltato il capo dall’altra parte, ignorando così un’umanità che è stata dimenticata quando ancora era in vita. Un certo senso colpa ci guida nel cercare di riparare agli enormi torti che tanti hanno subito, con la speranza di coinvolgere in tale operazione quanti leggeranno questi lavori.
Consapevoli certamente del fatto che il debito accumulato da parte di tutti noi nei confronti di quei “vinti” rimarrà inestinguibile. Ma non possiamo non farlo, coscienti che anche se poco, questo sforzo è dovuto ed a qualcosa servirà.
Andrea Friscelli