Oggi sembra che di depressione soffrano 17 italiani su 100, tra i quali il 60% ha più di 65 anni. Nonostante la sua diffusione, esiste ancora molta confusione rispetto a questo termine utilizzato per inquadrare e riconoscere in una rigida etichetta diagnostica un insieme di sintomi particolari, tra i quali spicca il dolore e la disperazione che, insieme alla paura, la rabbia e la gioia, potremmo dire, sono tipici dell’universo affettivo dell’essere umano. Nel corso del secolo scorso la depressione è stata più volte definita il “male oscuro”, traendo spunto dal titolo di un noto romanzo di Giuseppe Berto. Per quale motivo questo disturbo rimane tuttora uno tra i disturbi psicologici più discussi e più frequenti? Il clima culturale oggi prevalente, mutati i modelli di riferimento e i valori tradizionali, esalta la giovinezza, il benessere e la salute e tende ad accostare il concetto di tristezza a quello di malattia. Il vissuto di umiliazione e di sconfitta, gli eventi di perdita e i fallimenti, sebbene siano tutte caratteristiche umane, non sono ammesse nella cultura vigente e pertanto, quando esse si verificano, possono costituire il beckground a partire dal quale può svilupparsi un disturbo depressivo. Il riduzionismo genetico, tuttora troppo spesso imperante, porta a lanciare una condanna a coloro che soffrono di depressione, attribuendo le cause a fattori biologicamente determinati e quindi immodificabili se non attraverso terapie farmacologiche. In altre parole, l’enfasi posta sulle matrici organiciste tende a medicalizzare ogni tipo di problema.
Il dibattito sulla natura organica oppure acquisita della depressione è sempre acceso. Eviterò di addentrarmi in questa sterile discussione: qualunque studioso non fanatico sa bene che l’interazione tra natura e esperienza produce le prerogative personali di ogni soggetto: noi siamo il risultato di tutto quello che abbiamo vissuto fino a questo momento. Se rispetto alla natura abbiamo pochi strumenti correttivi, nonostante i giganti del marketing propongano sempre nuove pillole della felicità, possiamo invece affrontare l’esperienza, modificare il nostro presente per migliorare il futuro, evitando di costruirci prigioni nelle quali rischiamo poi di rinchiuderci. Dal mio punto di vista, in linea con la prospettiva Strategica sistematizzata negli ultimi decenni da Giorgio Nardone e dai suoi collaboratori presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, anziché ricercare le cause della depressione, trovo più utile indagare i processi, o meglio le modalità di funzionamento del disturbo al fine di pianificare le strategie per uscirne.
L’atteggiamento fondamentale della persona depressa è la rinuncia nei confronti della vita: poiché è convinto che soffrirà comunque, il depresso rinuncia al tentativo di migliorare la propria vita, ovvero si arrende. La seconda caratteristica consiste nel relegare se stessi nel ruolo di vittima che delega continuamente agli altri il compito di farlo sentire bene. Talvolta questo tipo di relazione si trasforma in un vero ricatto morale nei confronti di partner e familiari: più tentano di aiutarlo, più si sentono incapaci a farlo. La terza caratteristica consiste nel lamentarsi continuamente o nel chiudersi in un fragoroso silenzio. L’effetto di questi tre ingredienti produce la pozione velenosa che il depresso si somministra quotidianamente. Quali strategie di intervento per il soggetto che vive nell’abisso della depressione e quali indicazioni da dare a chi vive accanto a lui? La maggioranza delle persone che vivono una fase depressiva, di solito resistono al cambiamento, continuando a alimentare il problema attraverso la messa in atto delle tre tentate soluzioni appena accennate: rinunciare/delegare, fare la vittima, parlare troppo/non parlare. I familiari a loro volta tendono a compatire, cercano di spronare e invogliare il proprio caro a fare cose che lui non è però in grado di fare. Questo inizialmente sembra che funzioni, perché la persona avverte l’amore dei suoi cari e si sente protetto. La trappola però è che, anche in questo caso, se io uso gli altri come stampella, confermo a me stesso che non sono in grado di fare niente da solo. Gli aiuti che ricevo dall’esterno confermano a me stesso che non sono all’altezza.
Se ognuno di voi si impegnasse, per più di due settimane, a rinunciare a fare cose piacevoli, a lamentarsi e vittimizzarsi e a pretendere il supporto dei propri familiari e a loro delegare ogni cosa, a parlare di continuo del proprio disagio o a calarsi in un silenzio di tomba, vi posso garantire che sarete ben predisposti a sviluppare un disturbo depressivo e vi sentirete illusi e delusi di voi stessi, degli altri o del mondo. Questo però ci insegna che noi possiamo fare esattamente il contrario: l’intervento strategico infatti, una volta bloccate queste tentate soluzioni fallimentari, procederà con l’introduzione di soluzioni alternative basate su comprovati protocolli ma al contempo calzate su misura in base alle singolarità della persona che si ha di fronte. L’ultimo messaggio che voglio dare a tutti i lettori, è attraverso le parole di uno dei più grandi scrittori moderni. Kafka scrive: un depresso è come colui che è stato condannato per una colpa che non ha commesso, ma che egli ha confessato. Dalla cella vede che stanno costruendo un patibolo nel cortile. E’ convinto che sia per lui. Nottetempo riesce a scappare dalla cella, corre nel cortile, sale sul patibolo e si impicca da solo”. Infine, vale la pena ricordare le parole di San Francesco d’Assisi: “Anche la più cupa delle tenebre può essere rischiarata da un singolo raggio di sole”.
Dott. Jacopo Grisolaghi
Psicologo
Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica di Arezzo Sessuologo e Dottore di Ricerca in Psicologia