Molti autori hanno arricchito la letteratura scientifica psicologica mostrando una duplice faccia di ciò che comunemente chiamiamo “stima di sé”. Da una parte c’è chi la considera un costrutto unitario, dall’altra chi ritiene che sia formata da più caratteristiche, ovvero dall’autostima (quanto mi percepisco capace) e dall’autoefficacia (quanto mi percepisco capace di fare). In ogni caso, evitando di addentrarci nel dibattito teorico che ha animato queste due posizioni, è apparso evidente a tutti che la stima che ognuno può provare verso se stesso sia influenzata da molti fattori e possa mutare nel corso del tempo. Questo vuol dire che il valore che ci attribuiamo può essere considerato un processo dinamico, dunque non statico, in grado di essere migliorato ed incrementato nel corso della nostra esistenza.
L’autostima, sebbene sia un costrutto personale ed individuale, molto spesso poggia le proprie basi sia sulle credenze che si hanno circa le proprie potenzialità, sia su quelle rispetto a ciò che gli altri pensano di noi. Ricordiamo a tal proposito che, da questo punto di vista, l’influenza dell’altro esiste sempre e comunque: il punto centrale sta nel percepirla come controllabile e commisurata a quanto per me una determinata cosa è importante o meno, senza, in altri termini, che essa annienti il mio punto di vista. Secondo Seligman, il primo passo nel processo di costruzione dell’autostima risiede nel riconoscimento delle proprie potenzialità, dei propri punti di forza e delle proprie virtù. Spesso tale processo è bloccato o rallentato dalla mancanza di consapevolezza di quali possano essere le caratteristiche personali universali degne di stima e dall’eccessiva importanza che viene data al giudizio altrui. Talvolta convincersi di non dover essere influenzati da ciò che pensano gli altri, diviene una battaglia estremamente ardua, se non impossibile.
Questo meccanismo mentale spesso è automatico ed ha forti effetti sulla nostra vita, manifestandosi non solo come sensazione pervasiva che soffoca ogni percezione delle nostre virtù, ma anche come parziale credenza che anche solo alcune potenzialità non facciano parte di noi. In tali circostanze diventa difficile provare a convincersi che il nostro pensiero è disfunzionale. Il modo migliore per superare questo scoglio, non è quello di combattere il meccanismo di pensiero abituale e lineare, seppur disfunzionale, che ci porta a non vedere il nostro potenziale o ad accorgercene solo rispetto a metri di valore esterni, ma anzi, di sfruttarlo e renderlo funzionale seguendo la sua stessa logica, come suggerito da Giorgio Nardone. Se, infatti, quando siamo convinti di essere “privi” di qualità e virtù la nostra autostima ci sembra totalmente o in parte dipendente dal giudizio altrui, se ne può dedurre che anche l’autostima degli altri segua lo stesso percorso, basandosi, almeno apparentemente ed in parte, sui nostri giudizi. La persona che vediamo sicura di sé, così diversa da noi, riscuote un grande successo, gode della nostra stima e di quella di tante altre persone. Quando quindi guardiamo una persona, tendiamo ad apprezzarne determinate caratteristiche, soprattutto quelle che riteniamo piacevoli, degne di stima, che creano valore, che sappiamo essere di difficile attuazione, che, nei momenti difficili, sembrano così diverse dalle nostre, addirittura a noi impossibili da mettere in atto.
L’apprezzamento di queste caratteristiche profonde è guidato da una sorta di giudizio che si forma dentro di noi, e questo apprezzamento, per essere evocato, deve soddisfare due prerequisiti: deve riguardare qualcosa di osservabile e qualcosa di noto, sul quale cioè si possa esprimere una opinione. Per essere in grado di stimare qualcosa, devo vedere l’oggetto della mia valutazione ed avere conoscenze che mi consentano di esprimermi sulla valenza che esso ha per me. Se questo è vero, è altrettanto vero il fatto che se stimo un individuo per determinate caratteristiche, virtù, punti di forza, che gli appartengono, significa che sto riconoscendo nell’altro qualcosa che conosco già abbastanza da poter giudicare come estremamente desiderabile, caratteristica che quindi mi appartiene, anche se a livello latente e non ancora manifesto.
Questa riflessione porta ad una progressiva consapevolezza delle proprie potenzialità che, sebbene presenti, possono non esserlo ancora a livello manifesto, restando latenti finché volontariamente non decido di esprimerle, mettendole in gioco, svelandole e sviluppandole. Queste riflessioni implicano il riconoscimento della propria responsabilità nella creazione dell’autostima, attraverso un processo di accrescimento volontario e guidato, che si sostanzia nel riconoscimento delle proprie potenzialità manifeste e latenti alla luce di ciò che riconosco e apprezzo nell’altro, nel potenziamento e nello sviluppo di tali caratteristiche e infine, nell’espressione di tali caratteristiche. Questo processo implica quindi la consapevolezza non solo delle proprie potenzialità, ma anche del potere che ciascuno ha ai fini della creazione della propria autostima e della stima che l’altro può nutrire nei propri confronti. In altri termini, noi esseri umani subiamo, nel bene e nel male, tutto ciò che costruiamo.
Dott. Jacopo Grisolaghi
Psicologo
Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica di Arezzo Sessuologo e Dottore di Ricerca in Psicologia