Vivere con la paura di ammalarsi e di morire: ipocondria e patofobia.

Vivere con la paura di ammalarsi e di morire: ipocondria e patofobia.

Sebbene in molti conoscano il termine ipocondria, in pochi credo che abbiano sentito parlare di patofobia. In questo articolo, desidero spiegare questi due disturbi, sempre più diffusi, apparentemente simili tra di loro, ma in realtà fondamentalmente differenti. Vivere con la paura di ammalarsi e di morire non è certo un pensiero moderno, infatti fin dall’antica Grecia sono riportati esempi di ipocondriaci e patofobici, ben descritti da Ippocrate. Perché, dunque, questi disturbi sono considerati oggi in forte aumento? Nell’attuale società, grazie o per colpa della diffusione di internet e della possibilità di cercare sintomi e cure nel web, i soggetti sembrano essere diventati maggiormente consapevoli dei mali che potrebbero colpirli e pertanto anche maggiormente predisposti ad ossessionarsi degli stessi. Come potremo definire questi due disturbi?

L’ipocondria potrebbe essere definita come la certezza di avere una o più malattie che in realtà non ci sono. La persona con disturbo ipocondriaco crede dunque di essere affetto da una o più malattie sulla base di una qualunque minima alterazione del proprio corpo. Questa credenza porta al controllo ossessivo dei presunti sintomi, il cui controllo va a rafforzare le ossessioni stesse e la conseguente paura di soffrire. La patofobia invece, più che dalla paura di soffrire, è caratterizzata dalla paura di morire. In questo caso, la persona con disturbo patofobico ha paura che una malattia fulminante, quale per esempio un ictus, un infarto o un aneurisma, possa portarlo istantaneamente alla morte. A partire da questa paura il soggetto tenderà a prendere precauzioni sulle quali strutturerà la propria vita e a controllarsi compulsivamente e in modo paranoico, con il risultato di perdere sempre più il controllo.

Questi due disturbi, come già accennato, apparentemente simili, possiedono strutture di mantenimento del problema completamente diverse e di conseguenza devono essere trattati in modo differente. Proprio per queste loro caratteristiche, bene trattarli in un unico articolo in modo tale da fare un po’ di luce in un ambito della psicopatologia non sempre chiaro. Il soggetto ipocondriaco, convinto di avere una malattia, tenderà a monitorare e controllare costantemente il proprio corpo per cercare di individuare i segnali e i sintomi di possibili malattie. Più nel dettaglio, sarà portato ad ascoltare ossessivamente le sensazioni provenienti dal corpo e ricercherà i segnali al fine di scagionare la presenza della tanto temuta malattia causa di future atroci sofferenze. In queste situazioni viene a crearsi il così detto effetto paradosso: sebbene cerchi per non trovare, in realtà, più cerca e più troverà, finendo per trovarne ancora di più, rinforzando la sua credenza iniziale. Al fine di migliorare il proprio stato, il soggetto metterà in atto tentate soluzioni che, pur messe in atto con le migliori intenzioni, condurranno alle peggiori conseguenze: incessante ricerca dei segnali, parlare continuamente del proprio problema, invasivi e ripetuti accertamenti medici. La persona che soffre di patofobia invece, dal canto suo, ha paura di avere o di poter contrarre una malattia fulminante.

Il soggetto patofobico entra in allarme in presenza di qualsiasi segnale inusuale proveniente dal corpo perché potrebbe essere per esempio un sintomo di infarto, ictus o aneurisma. Nel tentativo di scacciare questi pensieri, i pensieri stessi diventano più assillanti e invasivi, fino a poter giungere a veri e propri episodi di panico. Il patofobico adotta specifiche tentate soluzioni che mantengono il problema, quali il cercare di scacciare il pensiero, con il risultato di aumentarlo ancora di più, non fare accertamenti medici, in quanto hanno paura che potrebbero concretizzarsi i propri timori e la tendenza a parlarne con chiunque, al fine di chiedere aiuto. In entrambe queste forme di patologia la terapia breve strategica è capace di abbattere il muro che il paziente ha costruito attorno a sé nel corso del tempo, ma che invece di proteggerlo lo imprigiona sempre di più. Il lavoro psicoterapeutico, differenziato per questi due disturbi, conduce il paziente a controllare le proprie ossessioni, in modo che non siano più loro a controllare l’individuo, fino ad annullarle totalmente. Anche nelle forme più avanzate, la durata della terapia, al fine di ottenere uno sblocco del problema, si aggira intorno alle 7 sedute. Successivamente, una fase di consolidamento dei risultati raggiunti, consentirà all’individuo di recuperare tutte quelle funzioni precedentemente alterate dal disturbo a carattere ossessivo e tornare a vivere la propria vita senza avere paura di soffrire e morire.

Dott. Jacopo Grisolaghi
Psicologo
Psicoterapeuta Ufficiale del Centro di Terapia Strategica di Arezzo Sessuologo e Dottore di Ricerca in Psicologia