Il passato, il presente, il futuro. Gertrud, Cristina, Aster333. Cosa succederebbe se la nostra esistenza si scomponesse in tutte le parti del tempo?
Il tempo, che cosa strana che è il tempo. Scorre inesorabile, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, senza che ce ne rendiamo conto il presente diviene passato ed il futuro diviene presente. Niente può arrestare il tempo, poiché esso viaggia in un binario solo suo, non si intreccia con le altre dimensioni, non è come l’altezza, la lunghezza e la profondità, esso non è modificabile, non è interpretabile. Il tempo è, semplicemente è. O forse è solo il punto di vista sbagliato?
Guardiamo al tempo come guardiamo alle altre dimensioni. È possibile mandarlo indietro? No. È possibile saltare in avanti? No. E ci fermiamo qua, non cambiamo domanda, non siamo abituati a farlo. E se invece io vi chiedessi : siete sicuri che ci sia solo un tempo?
Il cuore di Cristina pulsava sempre più lento all’interno del suo corpo. L’asfalto stradale, così nero e duro, celava l’orrore che gli arti rotti di lei avrebbero provocato in un candido pavimento casalingo. Il sangue scuro che si allargava attorno a lei non dava il giusto effetto, nessun responsabile della fotografia in un film avrebbe mai potuto mettere su schermo quell’immagine senza ricalibrare il colore, per rendere evidente come quel rosso liquido scuro, viscido, si stesse allargando attorno a lei.
La macchina che si era infranta contro di lei si trovava ferma, all’angolo della strada, ed il conducente era ormai sceso da alcuni minuti, con la mano scossa dai brividi gelidi che percorrevano anche la sua schiena. La voce tremante stava parlando con il 118, chiamando i soccorsi, implorandoli che facessero in fretta, inconsapevole che ormai, per la ragazza, non ci fosse più possibilità alcuna.
La gamba destra, il polso, il gomito, erano stati intaccati, ma ciò sarebbe stato risolvibile, avrebbe potuto essere curata per quelle lesioni.
Ma non certo per la testa…
Il casco si era rotto e il suo cranio si era infranto insieme ad esso, iniziando a diffondere attorno a lei quel sangue troppo scuro a contatto con il manto stradale per sembrare reale. Solo quello che usciva dalle sue labbra era chiaro, vivido. Macchiava la sua pelle e veniva vomitato fuori, bloccandole la gola a metà, perché nessuno aveva osato toccarla, lasciata supina a inghiottire lo stesso sangue che avrebbe voluto sputare, che avrebbe dovuto sputare fuori per cercare, almeno, di sopravvivere.
Vi siete mai chiesti se quello che state vivendo non sia un sogno? Un’illusione? Un’esistenza irreale, creata solo dal vostro inconscio o da qualche scienziato pazzo in cerca di un passo avanti nella storia che ha scelto voi e soltanto voi come cavie? Se non ve lo siete chiesto ancora, io, fossi in voi, inizierei a chiedermelo.
Aster333 puntò gli occhi chiari contro i fari dell’auto che precipitava verso di lei. Il suo corpo non si muoveva, non sembrava intenzionato a fare neanche un passo per cercare di salvarsi. La sua mente le gridava di fuggire di spingere i piedi sui pedali della bici per non essere colpita, ma il cervello si muoveva più veloce dei suoi muscoli, gli impulsi sembravano bloccarsi a metà strada nel suo sistema nervoso, fin quando non divenne inutile anche solo credere di poter fuggire.
La macchina la colpì in pieno al torace, spingendola al suolo e schiacciandola contro quel misto di cemento e gomma che disegnava le strade ormai non più toccate dai veicoli a motore, fino a quel momento.
Il clacson della vettura iniziò a suonare bloccato a causa della fronte del guidatore che si era scontrata con il volante per la mancata apertura dell’air bag, mentre dalla bocca spalancata della giovane donna non riusciva ad uscire neanche un suono.
Immobilizzata al suolo, la ragazza non percepiva più nulla al di sotto del punto in cui la macchina l’aveva colpita, inchiodata dal suo paraurti e dalla targa che stava finendo di recidere totalmente oltre alle sua pelle e ai muscoli anche le sue ossa, ella si trovava nel momento che tutti definivano come quello in cui la vita passa di fronte ai tuoi occhi perché stai morendo.
Il respiro a metà della sua gola seccatasi di netto si era bloccato, e più tentava di buttare aria dentro i polmoni più la sua percezione di qualsiasi arto si faceva più labile e il dolore agli organi che avrebbero dovuto tenerla in vita più prorompente.
Le iridi azzurre si annebbiarono, lasciando che un velo opaco si diffondesse su di loro, permettendo alla morte di sopraggiungere, all’oblio di catturarla e ai suoi sensi di percepire null’altro oltre al continuo urlo del clacson.
Poi il silenzio.
Avete mai pensato che voi potreste non essere voi? Che voi potreste essere qualcun altro e che proprio qualcun altro potrebbe essere voi? Avete mai pensato che voi potreste essere non solo voi? E che qualcuno potrebbe non essere affatto?!
La mano intorno al suo collo stringeva, si premeva così forte da iniziare già sul momento ad arrossare così tanto la pelle di Gertrud da renderla quasi violacea. Dito dopo dito, le impronte lasciate dall’uomo si facevano più profonde, mentre l’aria non riusciva a raggiungere i polmoni della popolana, della serva appena acquistata e già pronta per essere montata, almeno secondo i piani del suo padrone.
Le parole pronunciate dal nobile e grossolano uomo non riuscivano ad arrivare alle sue orecchie se non come un fischio, un sussurro che non riusciva a percepire, un ronzio che le opprimeva le orecchie a causa del mancato raggiungimento del cervello da parte dell’ossigeno. D’un tratto, come se una mano dal cielo fosse piombata a salvarla, quella del proprio aguzzino lasciò andare il collo della ragazza, spingendola qualche metro oltre di lui con un colpo violento accompagnato da uno sputo giallastro.
Le palpebre si abbassarono e rialzarono più volte sugli occhi celati dalle lacrime di quella che per l’epoca poteva essere considerata una donna ormai prossima al matrimonio, utile alla società per sfornare qualche braccio da lavoro e appagare il piacere di un padrone come un altro.
La mano di Gertrud si sollevò a tastare dove fino a pochi istanti prima le dita dell’uomo si erano strette, ma fu solo un attimo quello concessole, quanto invece all’aristocratico venne sottratto molto di più. Aveva pagato per quella serva, aveva lasciato un sacchetto di denari alla sua famiglia solo per vedersi strappata da sotto gli occhi la possibilità di usufruire del suo corpo sodo e giovane da una dannata carrozza.
Fu un attimo, un fugace respiro, e gli zoccoli di due cavalli imbizzarriti che avevano preso il controllo di un calesse al posto del cocchiere, si scontrarono contro il corpo riverso al suolo e ancora dolorante della giovane.
Quattro paia di gambe animali pigiarono su di lei, cercando invano di evitarla, fin quando il loro comandante non ebbe modo di riprendere il loro comando con un colpo di frusta e farli partire di nuovo al galoppo, così da sostituire i loro massicci nodelli con i raggi delle ruote che superarono senza neanche guardarlo il corpo di lei, passandovi sopra con tutto il peso del loro carico. Un trasporto di materiali da costruzione, pesante fardello per quei poveri ronzini, letale pressione sul corpo di Gertrud.
Lo sguardo schifato del ricco neo padrone ormai senza serva si affacciò sul suo corpo menomato e ancora fresco, sul volto deturpato, schiacciato e tagliato, rivolgendole solo un altro sputo maleodorante e viscoso.
Il tempo è, semplicemente è. O forse è solo il punto di vista sbagliato?
Il trillo di una sveglia si diffuse nell’aria, ma le palpebre non si aprirono subito a schiudersi sugli occhi chiari di Amanda.
Ci volle il bussare convulso alla porta della sua camera perché, mugolando il proprio disappunto, la giovane aprisse il proprio sguardo al mondo, puntandolo sulla sveglia elettrica. Le sette… doveva andare a lezione e sua madre glielo stava rammentando cercando di sfondarle la porta e tirargliela giusto in testa.
«Muoviti a venire in cucina! Non sai cosa è successo!»
Ed invece no, non era il pugno di sua madre quello che si abbatteva contro la sua camera, ma quello di sua sorella che concitata piombò vicino al suo letto, tirandole via la coperta di dosso e afferrandola per un polso, per trascinarla fuori da quel caldo giaciglio e portarla nell’altra stanza, mentre lei non ricordava ancora neanche il suo nome o il giorno della settimana.
«…il muro di Berlino sta cadendo. Ci troviamo in un momento storico, stiamo assistendo alla storia…»
Furono queste le prime parole che Amanda colse quando varcò la soglia della cucina, trovando il resto della famiglia fermo di fronte al grosso televisore che possedevano. Nessuno mangiava o consumava il caffè ancora fumante nelle tazze della colazione.
Ciò che stava accadendo in quel 1989 era un evento che avrebbe segnato le loro vite, e prima ancora che la sua mente potesse ricordarle quale era il suo nome e se quel giorno lei avesse oppure no Diritto Privato, le sue orecchie si tesero ad ascoltare la notizia che scorreva al telegiornale, mentre gli occhi chiari si sgranavano e assottigliavano, per riuscire a cogliere nonostante i grumi di sonno agli angoli, le immagini dei berlinesi arrampicati sulle pietre.
E se invece io vi chiedessi : siete sicuri che ci sia solo un tempo?
Se vi dicessi che i binari del tempo sono infiniti, aggrovigliati l’uno all’altro, come un dna scoordinato e avvolto quasi come succede alle matasse.
E se io vi dicessi che, in tutti questi tempi, esiste un “voi” uguale e diverso, in un altro posto, in un altro momento, con un altro nome.
E se io vi dicessi che in tutti questi tempi diversi voi morireste ogni volta nelle medesime circostanze perché sareste comunque, ancora una volta, una copia di voi stessi…
E se io vi dicessi che, ogni tanto, questi tempi si scontrano, e voi non sareste più voi ma l’altro voi…
Se io vi dicessi tutto questo, voi, cosa fareste?
Francesca Bonelli
Immagine in evidenza: Eric Bouvet, The Fall on the Berlin Wall, 1989