L’ultimo romanzo di Dianora Tinti, “Vite sbeccate”, intrattiene un rapporto al contempo di continuità e di frattura con la precedente produzione letteraria della scrittrice grossetana. Di continuità, perché l’amore resta il sentimento che domina la scena; di continuità, perché lo scavo psicologico dei personaggi mantiene intatto il suo rilievo; di continuità, perché la speranza e la fiducia nel bene – nella forza d’imporsi del bene – non vengono meno neppure in “Vite sbeccate”, sebbene già il titolo sembri suggerire un’idea di rottura, perdita, mancanza. Ma anche, come osservavo, di frattura, dal momento che la costruzione della trama e l’intreccio delle storie che coinvolgono Viola, Andrea, Federico, Aliènor, Roy, Adriana, Gianluca, Clelia, a me pare che raggiungano una complessità e una sapienza, che fanno di “Vite sbeccate” il romanzo più ambizioso e più maturo di Dianora Tinti.
Da questo punto di vista, non mi meraviglierei troppo se il suo prossimo lavoro strizzasse l’occhio al genere del romanzo storico, dove l’amorevole cura nel narrare frammenti di comune vita quotidiana si accompagna al possesso di uno sguardo d’insieme capace di abbracciarli tutti e tutti ricondurli a unità. Molteplici esistenze, infatti, esprimono molteplici maniere di vivere l’amore, l’amicizia, la solitudine, la gioia, la violenza, l’attesa, il disincanto, il sogno, insomma, quell’insieme di esperienze e di sentimenti che connotano e definiscono ogni vita umana, nessuna esclusa.
E già in “Vite sbeccate” l’amore, ad esempio, è colto e mostrato con un’ampia varietà di toni e di gradi, che vanno dalla passione che acceca all’affetto fraterno, dal rispetto per l’autonomia dell’altro al desiderio di possesso, dalla voglia del “sempre nuovo” al tepore della “ripetizione dell’uguale”. Dinanzi a tale eterogeneo concerto di voci, Dianora Tinti sceglie di farle riecheggiare tutte, anche quelle più sgradevoli, quelle più urtanti, convinta, come è, che sia compito dello scrittore rappresentare la realtà per quello che è, non per quello che sarebbe bello che fosse. E molte volte, proprio là dove ogni armonia pare assente, là è dato riconoscere il suono autentico dell’esistenza. Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo, che si articola in un prologo, quattro sezioni, un epilogo.
“Da un pezzo aveva dato l’addio a risvegli oltre le otto di mattina. Qualcosa di fastidioso, intorno alle sei e mezzo, la costringeva ad aprire gli occhi. Un ovattato torpore la accompagnava per un’oretta, impedendole di infilarsi le ciabatte e trascinarsi inconcludente per la casa, ma quella mattina non tutto funzionò bene. Era prestissimo quando scese al piano di sotto e, dopo aver dato da mangiare ai tre gatti, che avevano fame a qualsiasi ora, si avventurò in cucina alla ricerca alla ricerca disperata di un caffè mentre suo marito, beato, esplorava ancora l’infinito universo dei sogni. Con la tazzina in mano andò verso il terrazzo e lasciò che il suo sguardo corresse sul profilo dolce delle colline reso più suggestivo dal sole che, in quella limpida domenica autunnale, colorava di rosa il castello che aveva fatto da cornice alla storia d’amore tra Paolo e Francesca. Da quasi vent’anni abitava a Gradara, ma ogni volta che vedeva la rossa e il borgo medioevale non poteva fare a meno di regalare un pensiero agli sfortunati amanti immortalati da Dante. Quando rientrò in casa la ciurma di gatti disobbedienti aveva messo in scena uno spettacolo di salti e piroette degno dei più esperti saltimbanchi. Sorrise con le palpebre ancora pesanti e la fastidiosa sensazione del precoce risveglio”
Dianora Tinti, Vite sbeccate, Pegasus Edition, Cattolica 2019
a cura di Francesco Ricci
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