A pochi giorni dall’uscita e dalla presentazione alla libreria Mondadori del libro di Andrea Friscelli (testi) e Riccardo Manganelli (disegni), dedicato a una nuova storia tratta dall’Archivio Storico del San Niccolò, riporto la Prefazione al volume che ho avuto il piacere di scrivere e che si intitola “Memorie da una stanza dell’Ospedale psichiatrico di Siena”.
A volte la letteratura e la vita si mescolano. Al di fuori di ogni atteggiamento da esteta, lontano da ogni sensibilità decadente. Personalmente non sono in grado di dire se tale confusione di ambiti costituisca una maniera per dare soluzione alla questione – di fatto eludendola – del rapporto che intercorre tra la realtà e l’opera d’arte che la rappresenta. Quello che so è che la distanza che separa il personaggio di un romanzo dall’autore in carne e ossa può essere anche molto breve, quasi impercettibile.
Ad esempio, nella Beffa senza cena di Giovanni Roy il legame che unisce il piano della biografia e quello della cultura, specie della cultura letteraria, è evidente. Non solo, però, perché, complice l’adozione della forma-confessione, il lettore viene informato, attraverso la vicenda del narratore interno, di quanto realmente accadde allo scrittore, nato in Germania nel 1866, nel corso della sua permanenza a Siena nei primi anni del ventesimo secolo. Ma anche, e soprattutto, perché il racconto della sua drammatica esperienza viene svolto filtrandolo attraverso l’opera di autori a lui molto cari. Quali autori? Due in particolare. Franz Kafka e Fëdor Dostoevskij. Il primo, che compendia agli occhi di Roy l’intera civiltà mitteleuropea, è un nome che, non a caso, ricorre con una certa frequenza tra le letture del pittore-scrittore, specie con Il processo. Il secondo, invece, che è presente, come modello, più sottotraccia, appare un termine di confronto quasi obbligato per chi, come Roy, da parte materna (la contessa Elisa Kapnist) era radicato nel suolo della grande madre Russia. E se da Kafka il pittore-scrittore derivò la tendenza a porre alla base del suo libro, pubblicato una prima volta nel 1912 con una tiratura di poche copie, un evento inverosimile (perché tale viene percepito dalla voce narrante l’internamento nell’ospedale psichiatrico di Siena), da Dostoevskij, invece, riprese l’attenzione per quelli che Carl Gustav Jung definì “i sotterranei dell’anima”, vale a dire l’inconscio, e che costituiscono la vera materia di Memorie del sottosuolo.
Tuttavia, il protagonista della Beffa senza cena anziché soffermarsi a scandagliare e studiare il proprio mondo interiore, con le sue zone selvagge, i suoi mostri, i suoi morti, come fa l’uomo del sottosuolo dostoevskijano, proietta sugli altri l’immagine velenosa e inconfessabile generata dai “fiori del male” che crescono dentro di lui. Da ciò derivano sia la rappresentazione fortemente critica dell’istituzione manicomiale del San Niccolò e della psichiatria italiana, sia la polemica contro i valori del razionalismo e del positivismo, che reputano folli tutti quegli atteggiamenti che si sottraggono all’uniformità della condotta sociale.
Insomma, il personaggio che è collocato al centro della Beffa senza cena discende dal piano superiore – volendo riprendere la metafora impiegata da Alberto Moravia nel suo commento al romanzo dello scrittore russo – al sottosuolo della casa dove ha sempre abitato, ma, anziché fermarvisi e gettare con cura occhiate in giro, risale immediatamente e, facendo finta di non avere rinvenuto niente di cui vergognarsi o di cui dover in qualche modo rendere conto, si assolve e intraprende la sua personale battaglia contro chi non lo ha capito o fa finta di non averlo capito. Un risentimento, quello di Roy, certamente comprensibile, se si tiene conto del fatto che per ben cinquantasei giorni rimase ricoverato al San Niccolò senza che gli venisse mai né spiegata né chiarita in maniera convincente la ragione della sua permanenza, ma che finisce col privare le pagine di quel senso dell’umano soffrire, che rende indimenticabile e toccante, ad esempio, la lettura de L’altra verità, il diario nel quale Alda Merini ripercorse il suo lungo ricovero nell’ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano.
Il valore della Beffa senza cena, valore letterario, valore storico, resta, in ogni caso, indiscutibile. Da un lato, infatti, è un bel libro, la cui inattualità stilistica e strutturale rispetto ai modelli dominanti allorché venne dato alle stampe, costituiti dal romanzo tardo verista e dal romanzo dannunziano, si traduce nella sua attualità, rendendolo familiare a chi abbia letto, volendo limitarci all’ambito italiano, Svevo, Moravia, Berto, Tobino, il Saba di Ernesto. Dall’altro, costituisce un documento importante per capire e meditare l’accidentato percorso compiuto dalla psichiatria, soprattutto prima che venissero conosciuti e meditati i lavori di Karl Jaspers e Ludwig Binswanger. Le omissioni, gli aggiustamenti, le bugie e le mezze bugie di Roy a proposito della vita all’interno del San Niccolò di Siena, infatti, né alterano né stravolgono in profondità quella che purtroppo è stata per lungo tempo la fisionomia tipica dei manicomi italiani e che lo psichiatra Eugenio Borgna ha così descritto in Di armonia risuona e di follia: “Luoghi abitualmente lontani da ogni centro abitato, contrassegnati dalle alte mura (reali e simboliche) della separazione e della cancellazione della propria identità. Luoghi in cui si entrava, e da cui magari non si usciva più, o in ogni caso non si usciva se non dopo lunghi periodi di tempo. Luoghi in cui, almeno in Italia, ancora venticinque anni dopo la scoperta e l’utilizzazione di farmaci antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici, si continuava a ledere la dignità e la sensibilità dei pazienti”.
A. Friscelli – R. Manganelli, Roy, il pittore che odiò Siena, Betti, Siena 2018
A cura Francesco Ricci