foto di Annie Mallégol
I veri scrittori sanno donarci uno sguardo nuovo su luoghi che, per esserci divenuti familiari, spesso finiamo quasi col non vedere più. E’ come se riuscissero a sovrapporre alla geografia fisica (alla geografia umana) di un “terrarum angulus” una diversa geografia, che è possibile chiamare geografia sentimentale. Così, ad esempio, quando si parla della Milano di Alda Merini, della Livorno di Giorgio Caproni, della Parigi di Charles Baudelaire, della Trieste di Umberto Saba, della Praga di Franz Kafka, della Vienna di Arthur Schnitzler, della Roma di Pier Paolo Pasolini, della Siena di Federigo Tozzi, noi non ci limitiamo a istituire un collegamento tra un autore e una città, città di nascita o città d’elezione. Tantomeno intendiamo definire semplicemente uno spazio o un ambiente al cui interno i personaggi del romanzo – o, nel caso del genere lirico, il poeta – si aggirano, agiscono, vivono. Piuttosto, la Roma di Pasolini è la Roma che lui ha raccontato alla luce del modo col quale l’ha percepita e l’ha fatta propria, e lo stesso vale anche per le altre città menzionate. E’ alla luce di questa osservazione che occorre leggere “promenade”, l’ultimo delizioso lavoro di Alfonso Diego Casella. Il Santa Maria della Scala, il Convitto Tolomei, il Campo, il Casato, via dei Montanini, via di Pantaneto, Porta Pispini, Porta Romana, via Piccolomini, Villa Scacciapensieri, ci vengono incontro non nella loro asettica oggettività, bensì filtrati da una doppia soggettività. Da un lato, infatti, incontriamo la rappresentazione che di Siena hanno offerto Vittorio Alfieri, Giacomo Casanova, Mario Luzi, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Aldous Huxley (ma l’elenco sarebbe lunghissimo), ora in maniera distesa, ora attraverso frammenti e “illuminazioni”; dall’altro, abbiamo l’interpretazione che Diego Casella dà dei passi di questi scrittori (ricavandoli anche da lettere, diari, interviste), costruendovi intorno una credibilissima passeggiata attraverso le strade e le piazze di Siena, che comunica al lettore il senso della permanenza dell’essenza profonda della nostra città attraverso i secoli. Il brano che segue è tratto dal quinto capitolo e costituisce un ottimo esempio del continuo intrecciarsi di voci, di storie, di paesaggio urbano e rurale.
“Ma sì, te l’avevo detto che non dovevi scrivere questa storia. Quante volte te lo devo ripetere, sei duro. Per esempio questa invenzione fasulla che io e Gadda sbuchiamo invisibili da dentro l’osteria del babbo di Tozzi, esattamente nello stesso momento in cui decidiamo di allungare fino a piazza san Francesco, dove fa un caldo torrido tra l’altro. E non passa anima viva, la strada è deserta. La pietra serena e i mattoni rossi sono bollenti. E’ il 22 agosto 1955 e Albert Camus sta accucciato all’ombra e riempie di parole i suoi “Taccuini”. Quanto a te, vedo che stai cancellando le pagine iniziali. E’ vero che non dovevi scrivere questa storia, ma non cancellare più niente adesso, lascia stare. Aggiungi invece che è seduto e spettinato dal vento, sopra una panchina. Alza gli occhi e dice, quando sarò vecchio vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada fuori-porta che non ha eguali al mondo e di morirvi in un fossato. Era una strada piena di curve quella, fatta a iedi da giovane con lo zaino sulle spalle da Monte San Savino fino a qui. Non scherzava Camus nel suo taccuino, quello ci voleva morire per davvero nel fossato, a due passi da porta Pispini; aveva costeggiato la proda d’una campagna di ulivi sgargianti e di viti che odoravano. Di notte, ne sogna i colori e rivede queste colline di tufo bluastro e la città nell’alba con i suoi minareti, come una piccola Costantinopoli di perfezione”.
Alfonso Diego Casella, Promenade, Colle di Val d’Elsa, Vittoria Iguazu Editora, 2015
a cura di Francesco Ricci