Per la piccola Alya il porto dov’è sbarcata è troppo simile a quello che ha lasciato.
Il sole si affaccia su di un nuovo giorno. L’aria salata si mischia all’odore del sudore. Due occhi color del carbone scrutano un porto affollato, impauriti e spaesati. Alya, troppo piccola per abbracciare tutto ciò che paura non è, si rintana tra le braccia della mamma.
Le urla si riversano in lacrime nei suoi occhi, pronte a spegnere quei tizzoni ardenti di felicità . Una felicità  ormai minata da una guerra senza senso. La felicità che le aspetta al di là del mare. La speranza di ritrovare una bambola e delle lenzuola fresche.
Una nave che salpa carica di uomini e speranze che ben presto verranno tradite. Il mare che da amico e compagno si trasforma in ostacolo invalicabile. Le onde bagnano i volti di quegli uomini per cancellarne il viso, gli occhi slavati dalle lacrime. La costa sembra un miraggio, così come lo è un pezzo di pane o un po’ d’acqua buona, pulita. Ma piano piano si avvicina.
In una notte stellata, dove una luna sincera sembra indicare la strada, la nave lascia le acque extraterritoriali per un mare di qualcuno, una terra di qualcuno. La buona riuscita del viaggio sembra agli occhi di Alya un presagio di fortuna, ormai le bombe sono lontane, quei signori dagli occhi di tenebra pure, la mamma non piange più, forse tutto andrà per il verso giusto.
Mentre il sole si risveglia, un turbine di vento passa sopra le teste di quelli che ormai sono ufficialmente immigrati, un elicottero bianco ed arancione li sorvola. Dopo poco il miraggio diventa realtà , il barcone attracca al fianco di una nave mercantile. E le due navi vicine e quasi sorelle vomitano il loro carico sul molo. Uno avvolto nel cellofan e l’altro accolto da coperte color dell’alluminio.
Alya si guarda intorno, viene tradita già la sua prima speranza, questo porto non è poi tanto diverso da quello lasciato. La gente qui sta sì zitta, ma in un silenzio assordante più di mille parole. Gli occhi di coloro che dovrebbero accoglierli non sono poi tanto iversi, rispetto al vuoto che c’era in quelli di chi li aveva costretti a scappare.
Non c’è nessuno che la guardi negli occhi, nessuno che si ricordi che lei è solo una bambina gettata nel mezzo di procedure burocratiche che dimenticano cosa significhi. Prima d’accettarli questi esseri strani con la pelle color dell’ebano bisogna visitarli. Aspettano ognuno il loro turno stipati in un angolo del porto come sardine in una latta di alluminio.
Alya vede entrare uno alla volta in un camioncino i suoi compagni di viaggio, accompagnati da una signora in camice bianco. Aspetta il suo turno come tutti, seduta con la schiena dritta e i capelli raccolti in una treccia, a vederla le si attribuirebbero natali illustri. Passate alcune ore tocca a lei essere visitata.
Viene a prelevarla la stessa signora in camice bianco, come ha fatto finora con gli altri le fa un cenno e le indica la porta, con lo sguardo spento. La madre di Alya chiede di accompagnarla ma non può, allora rassicura la piccola, “ci vediamo dopo” le dice e la segue con lo sguardo fino a che non scompare dietro il camioncino.
Alya si guarda intorno, la dottoressa le chiede di sedersi, tre un po’ qualcuno verrà a visitarla, si assicura che non si muova da lì e va via. Poco dopo Alya vede entrare un altro camice bianco, stavolta però indossato da un dottore, un uomo alto dagli occhi color del mare.
L’uomo le fa un sorriso, ” capisci ciò che ti dico?” le chiede in inglese, Alya annuisce, la mamma riceveva spesso visite da un inglese, e pian piano fu naturale imparare la lingua.
Il dottore prima di iniziare la visita le chiede accompagnando le parole con molti movimenti delle mani “Hai mangiato? Come ti chiami?”, “Alya” risponde con un sorriso la bambina “No, non ho ancora mangiato.” Il dottore estrae dalla tasca come dal cappello di un mago una barretta di cereali e scusandosi per l’esigua porzione gliela porge.
Alya finalmente riconosce uno sguardo che sorride complice in mezzo a troppi occhi vuoti. E la speranza riprende vita nel suo cuore.
Carlotta Piccolo