Per i ragazzi e le ragazze fiorentine – e per i loro genitori – c’è stato un periodo, compreso grosso modo tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, durante il quale veramente la notte, volendo riprendere il titolo del libro di Andrea Ceccherini e Katiuscia Vaselli, è sembrata non finire mai. L’astronomia non c’entra. Il sole, infatti, ha continuato a sorgere e a tramontare, la luce a illuminare il mondo. Metaforicamente, però, quella lunga stagione è stata per davvero una lunghissima notte, una stagione, cioè, di paura, di sgomento, di buio nell’anima, buio generato dalla consapevolezza che non era possibile appartarsi in macchina a fare l’amore con la persona amata. Nessun angolo della campagna fiorentina era percepito sicuro. Ciò che i genitori, ciò che i fratelli e le sorelle maggiori avevano fatto, ora non era più possibile farlo.
Perché l’omicidio di Stefania Pettini e di Pasquale Gentilcore, uccisi a Borgo San Lorenzo il 14 settembre 1974, non era rimasto un episodio isolato. Perché c’era una beretta Calibro 22 che continuava a fare scempio di corpi e a troncare nel sangue i più dolci progetti di vita. Sì, in quel decennio la notte è parsa non finire mai. Ora, a distanza di 35 anni dall’ultimo delitto di quello che il giornalista Mario Spezi, al quale è dedicato “La notte non finisce mai”, ribattezzò il mostro di Firenze, Andrea Ceccherini e Katiuscia Vaselli offrono una ricostruzione chiara, informatissima, ben argomentata, di quanto accadde allora. Borgo San Lorenzo, Scandicci, Calenzano, Montespertoli, Giogoli, Vicchio, San Casciano val di Pesa: non è la guida di un lembo di territorio toscano quella che si squaderna davanti al lettore, pagina dopo pagina, attraverso anche un ricco apparato iconografico; piuttosto, è la mappa di una discesa all’Inferno. Sulla carta di questa mappa, non tutti i tratti sono chiari, Andrea e Katiuscia lo sanno bene. Alcuni non lo erano dall’inizio, altri, però, si sono fatti ora evanescenti ora oscuri a causa delle lacune investigative. Di più, come conseguenza di quelle che sono state le lotte interne alle procure e interne ai tribunali (si veda, al riguardo, il fondamentale undicesimo capitolo del libro, significativamente intitolato “Mostro di Firenze. Una storia di potere”).
Ad esempio, a lungo l’omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, freddati da otto colpi sparati da una Beretta Calibro 22 Long Rifle mentre erano appartati in macchina a Castelletti di Signa, il 22 agosto 1968, è stato considerato del tutto indipendente (il movente venne individuato nella gelosia) dai delitti successivi; ad esempio, alcuni elementi presenti sulle scene del crimine sono stati sì repertati, ma analizzati a distanza di giorni, quando ormai era minima la possibilità che fornissero informazioni preziose su quanto avvenuto; ad esempio, si è prestata poco attenzione alla costante presenza di un corso d’acqua in prossimità dei luoghi dove il mostro di Firenze è entrato ogni volta in azione. Per non parlare, poi, dell’intrecciarsi di due piste, quella sarda (al centro di “La notte non finisce mai”) e quella dei “compagni di merende” (indagata, anche nei suoi aspetti più pruriginosi, da quotidiani e servizi televisivi dell’epoca), che ha finito per rendere ancora più confuso il quadro. Alla fine, l’impressione che resta nel lettore è che a partire da un certo punto più che “la verità”, come osservano Andrea Ceccherini e Katiuscia Vaselli, a essere cercata è stata “la soluzione” – alla lettera “lo scioglimento del caso” – come se le due cose coincidessero sempre, specie in un Paese, quale è l’Italia, nel quale di cattiva giustizia si continua ad ammalarsi e si continua a morire. “La notte non finisce mai” è arricchito anche dalle interviste fatte a Mario Spezi (giornalista), Rita Dedola (avvocato), Giampiero Vigilanti (l’ultimo a essere indagato), Silvano Piovanelli (cardinale), Vieri Adriano (avvocato).
“Uscendo a Firenze sud, la campagna toscana si manifesta in tutta la sua particolarità. Quell’arteria denominata A1, prepotente nel tagliare in due una vallata coronata da storie di collina e racconti di bosco, sembra addolcire il suo pragmatico ruolo di autostrada e, come se abbassasse la testa, ossequia il territorio che sta attraversando. Bagno a Ripoli, Grassina, Ponte a Ema sembrano realtà confinate ai margini dalla forza preponderante del nucleo cittadino, comuni respinti dalla fama di Firenze, villaggi a poche centinaia di metri dall’Arno urbano, ma che, come toscane Montmartre, mantengono le loro prerogative e le loro unicità. Lasciando i paesi e salendo sulle colline, questa sensazione di mantenuto orgoglio comunale agreste si manifesta in tutto il suo splendore; boschi fitti nascondono strutture architettoniche, testimoni di un passato non troppo lontano, ville, giardini, e tutto diviene celebrazione di una Firenze che, da quelle alture, si lascia guardare nella sua interezza e splendore. Da una di queste prospettive, Mario Spezi continua a guardare la sua città adottiva, quelle strade che da cronista ha percorso per tanti anni in cerca di una notizia, per conferma a una soffiata, per raggiungere i più svariati luoghi di lavoro. Sembra lontana Firenze, ma è solo a una manciata di chilometri da lì; sembra lontana nella quotidianità, ma rimane vicina e stretta al cuore. È una persona cordiale Mario Spezi, lo si capisce da come ti accoglie e al tempo stesso trasmette richiesta di educazione e rispetto. La sicurezza traspare sia nei gesti che nelle parole ed è proprio la sua sicurezza il mezzo per provare a comprendere la storia di un uomo che nell’esposizione ti spiazza per impeccabile capacità retorica.”
a cura di Francesco Ricci
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