A partire da “Ti prendo e ti porto via” (2014) di Niccolò Ammanniti, sono sempre di più i libri pubblicati dalle grandi case editrici che affrontano il tema del bullismo. Quest’ultimo, restando ai romanzi e tralasciando i saggi che pure gli vengono dedicati in numero crescente, è stato indagato e raccontato nelle sue costanti e nei suoi elementi di discontinuità. Tra i primi, è possibile menzionare l’aspetto fenomenologico (la centralità del gruppo, l’aggressività gratuita, la reiterazione dei soprusi, lo squilibrio di potere tra i soggetti coinvolti) e le conseguenze procurate (le tracce che lascia, sia nella vittima che nel carnefice, sono destinate a durare nel tempo).
Tra i secondi, è possibile evidenziare il fatto che il bullismo ormai coinvolge, in misura pressoché uguale, maschi e femmine, e che lo spazio nel quale va in scena non si identifica più soltanto con gli spogliatoi, il treno, la stazione dei pullman, il cortile e i bagni della scuola, ma si estende alla Rete, dove gli adolescenti, creature anfibie che abitano due mondi (quello offline e quello online), trascorrono ormai la maggior parte del loro tempo. Un’attenzione, quella rivolta dalla narrativa e dal mercato editoriale al bullismo, che basta da sola a dare conto dell’urgenza con la quale il fenomeno è ormai percepito dalle famiglie italiane e dall’opinione pubblica. Il bel libro di Andrea Franzoso “Ero un bullo” deve essere letto, a mio avviso, in primo luogo proprio come un contributo a comprendere bene, e soprattutto a comprendere dall’interno – significativamente il sottotitolo recita “La vera storia di Daniel Zaccardo” –, il bullismo nella sua genesi, nelle sue differenti manifestazioni, nei suoi possibili rimedi. Solamente individuando, infatti, le ragioni che hanno determinato nel giovane una condotta che mescola violenza, rabbia e indifferenza per l’altro, è possibile intervenire e fare in modo che, come succede al protagonista del libro di Andrea Franzoso, l’esistenza assuma una nuova direzione e rinvenga un nuovo significato. Impresa per nulla facile, e l’autore non lo nasconde, dal momento che ogni caso di bullismo, sia osservato dalla parte del carnefice sia considerato dalla parte della vittima, è un caso a sé stante, che non contempla soluzioni facili e universali. E allora quello che è possibile dire è che se il protagonista del romanzo di Andrea Franzoso si salva, ciò dipende da un duplice incontro: l’incontro coi libri e l’incontro con due “buoni maestri”.
Specie nel carcere di San Vittore, infatti, Daniel frequenta assiduamente la stanza adibita a biblioteca, s’immerge nella lettura di romanzi e biografie, si forma finalmente un lessico e quindi diviene capace di costruire e comunicare le sue idee, consegue un’educazione emotivo-sentimentale, di cui è stato fino ad allora sprovvisto, apprendendo cosa siano la morte, l’amore, l’odio, il perdono, la rabbia, la fede, la malinconia, il tradimento, la vergogna. Soprattutto, però, conosce don Claudio e Fiorella, la quale, come volontaria, gestisce un cineforum all’interno del carcere milanese. Don Claudio e Fiorella sono realmente per lui dei “buoni maestri”, dal momento che sono coerenti (traducono sempre in azione quello che dicono), sono autentici (sono se stessi, senza finzioni e senza travestimenti), sono capaci di infondere fiducia a Daniel, suscitando in lui una profonda nostalgia del bene, perché hanno fiducia in se stessi (la loro calma, il coraggio, la moderazione, la stabilità lo rivelano), sono ricchi di un amore vissuto come dono, gratuità e servizio. I libri, don Claudio e Fiorella sono, perciò, veramente figure dell’Aperto, che aprono, non chiudono, il mondo di Daniel. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“Fischio di inizio. Il cuore pompava nel petto, i muscoli tesi. Era una partita importante e bisognava dare il massimo. La squadra ha bisogno di me. Il mister me l’ha detto: ‘Quel destro che ti ritrovi portalo in campo oggi, okay?’ Il primo tempo sembrò scorrere a velocità doppia, poi, ecco l’occasione giusta. Daniel corse con il pallone dal centrocampo. Scartò un paio di avversari, passò la palla a un compagno sulla fascia e tagliò verso l’area di rigore. Quello gli ripassò la palla. Il portiere intercettò il movimento e gli andò incontro, ma Daniel riuscì a dribbarlo. A quel punto era solo davanti alla porta vuota. Il pubblico tratteneva il fiato. Sulle tribune alle spalle c’era suo padre che assisteva in silenzio. Daniel non poteva vederlo, ma si sentiva addosso il suo sguardo. L’emozione era a mille. Tiro… ‘Nooo!’ Un boato inondò lo stadio. Gli entrò nelle orecchie come una lama, e poi tutto sembrò improvvisamente ovattato. La palla era finita a lato del palo. Daniel sputò rabbiosamente a terra e prese a riavviarsi con aria smarrita verso la sua metà campo. I fischi erano tutti per lui. I compagni di squadra gli lanciarono qualche occhiataccia. L’allenatore a bordocampo si sbracciava e gli gridava qualcosa che in quel momento non riusciva a capire. Daniel avrebbe voluto scomparire dentro la sua maglia nerazzurra. Continuò a giocare, ma senza grinta, meccanicamente. Il fischio di fine partita giunse come una liberazione”.
Andrea Franzoso, Ero un bullo, DeAgostini, Milano 2022
a cura di Francesco Ricci