L’ultimo libro di Andrea Laiolo, “Viola delle rocce”, può essere ricondotto al sottogenere del romanzo storico soltanto operando una forzatura. Infatti, la vicenda narrata, che si immagina avere luogo in Provenza nel XII secolo e che vede come protagonisti il nobile Hughes delle Balze e il conte di Lura, soprannominato Lancia di orso, è di continuo inframezzata da rimandi all’età attuale. Ciò naturalmente origina due piani narrativi temporali distinti.
C’è il “piano del presente”, dove crisi personali – ad esempio, quella sentimentale di Iole, giovane insegnante trentenne – e crisi di più vasta portata – la crisi dell’istituzione scolastica in Italia, la crisi della società – si intersecano. E c’è il “piano del passato”, costituito dalla raffinata civiltà fiorita nelle corti della Provenza e della Francia settentrionale dopo il Mille, coi suoi amori, le sue opere in versi (la lirica occitanica, i romanzi in versi, l’epica carolingia), le sue chiese e castelli, ma anche le sue contese sanguinarie tra aristocratici per ampliare o difendere i possedimenti territoriali. La capacità dell’autore di ricreare lontane atmosfere medievali, senza trascurare di restituirne la mentalità dominante (eminentemente religiosa), è straordinaria, come dimostra il seguente passo appartenente al secondo capitolo del romanzo: “Ma la nobildonna più bella e ammirevole per doti dell’animo era la figlia del signore, Iolanda. Il padre, oltre che averla messa al mondo per volontà di Dio, ne stimava tanto l’intelligenza da volerla al proprio fianco come consigliera nelle questioni che richiedevano la più seria riflessione”. E ancora più straordinaria è, a mio parere, l’abilità nel conservare la letterarietà della vicenda narrata, per quanto attiene al “piano del passato”.
Nella finzione narrativa, infatti, la storia che vede protagonisti Hughes delle Balze e il conte di Lura altro non è che la trasposizione in prosa, operata dal filologo Armand con l’aiuto della figlia Viviane, paleografa, di un anonimo romanzo in versi, composto da distici di ottosillabi, risalente agli ultimi anni del XII secolo. Andrea Laiolo comunica bene al lettore l’idea che l’originale fosse stato redatto in versi e non in prosa attraverso l’adozione di una scrittura attentissima alla versificazione, al punto che alcuni periodi possono addirittura venire scanditi metricamente. Si pensi, a titolo d’esempio, al passo che segue, sempre tratto dal secondo capitolo, dove viene descritto un misterioso cavaliere rosso: “è solitario, senza scudiero né altri al suo seguito; veste un’armatura chiara e una sopravveste rossa; interamente rosso è anche lo scudo, senza figure; non porta insegne, solo lancia e spada”. È sufficiente andare a capo, complice l’impiego marcato della paratassi, ogni volta che compare il punto e virgola, per ricevere conferma di quanto detto: “è solitario, senza scudiero né altri al suo seguito // veste un’armatura chiara e una sopravveste rossa // interamente rosso è anche lo scudo senza figure // non porta insegne, solo lancia e spada”. Di fronte a questa sapiente cura nel ricostruire il passato, non si deve, però, fare l’errore di ritenere che il “piano del presente” possieda un valore marginale, quasi di cornice. Quest’ultimo, infatti, appare costantemente in un rapporto vitale – oppositivo più che dialettico – col “piano del passato”. Entrambi lasciano intravedere la convinzione dell’autore che bene e male, quando si ha a che fare con la storia dell’uomo, si mescolano, si contrappongono, si confondono. Ciò valeva ieri e continua a valere oggi. Vero è che, però, a un certo punto della Storia pare che i valori, che sono essenzialmente dei coefficienti sociali adottati da una comunità per restare coesa, abbiano cessato di mutare e trasmutare: al loro posto si è accampato un arido, inibente, impoetico Nulla – nessun valore, nessun ideale – che ha reso incomprensibili anche parole come prodezza, fedeltà, lealtà, gratitudine, giustizia. Il brano che segue è tratto dal capitolo iniziale:
“- Questo racconto è tratto da un documento che in pochissimi al mondo hanno letto -.Un mattino di tarda primavera, Iole si recava a piedi verso la scuola per tenervi le ultime lezioni. Camminare le giovava; la temperatura ormai calda da qualche settimana consentiva di indossare i sandali, che nella loro leggerezza davano ai piedi agio di muoversi anche a passi sostenuti. L’anno scolastico che stava terminando con l’avanzata del sole estivo era stato per lei segnatamente duro, e così le vicende private della sua recente vita. Camminare significava moto del corpo e dell’immaginazione insieme, nonché rimuovere dal suo animo idee e pensieri dolorosi, i quali molto spesso in quei giorni la visitavano. Era stata improvvisamente abbandonata dall’uomo che amava, senza che alcunché nel comportamento di costui avesse fornito, negli ultimi tempi della loro relazione, segnali o preavvisi di quanto stesse per accadere, al contrario dunque di ciò che comunemente avviene nelle coppie in crisi. Ma loro erano stati in crisi? Si era chiesta ripetute volte Iole: niente che lei avesse potuto notare aveva lasciato supporre una prossima rottura, eppure tutto era crollato ad un tratto, e proprio nel momento in cui il loro amore sembrava invece coronato dalla perfetta intesa. Lui aveva trovato un’altra donna, dalla quale si era sentito folgorato”.
Andrea Laiolo, Viola delle rocce, Castelvecchi, Roma 2024
a cura di Francesco Ricci
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