La fortuna commerciale del genere giallo negli ultimi decenni ha diverse spiegazioni. Tra queste è possibile ricordare, oltre la sapiente e coinvolgente costruzione degli intrecci e la felice caratterizzazione di certi personaggi (commissari, marescialli, detective), anche la facoltà di far luce sul presente. Non a caso, sono molti i critici che interpretano il romanzo poliziesco come il nuovo romanzo sociale. Esiste, però, a mio avviso, anche un’altra ragione che può aiutare a comprendere il grande successo di vendite di questo genere. Mi riferisco alla capacità che il romanzo giallo possiede di restituire l’atmosfera, i colori, i sapori, le note di una regione o di una città italiana.
Basti pensare alla Sicilia orientale di Camilleri, alla Bologna di Lucarelli, alla Siena (gotica) di Tanzarella e di Pedraneschi, alla Firenze di Paoli, alla Toscana di Bicchi e di Malvaldi, alla Roma di Ricciardi e di Lugli, alla Napoli di Di Giovanni, alla Milano di Robecchi. Ora anche Taranto, in particolare uno dei suoi rioni più popolosi, Talsano, diviene “luogo letterario”, e ciò avviene grazie al primo romanzo di Beppe Briganti, pugliese di nascita, ma da molti anni residente in Toscana. Lo stupro di una donna (“Ha raccontato che un uomo a bordo di un ciclomotore di colore rosso si è avvicinato e, minacciandola con una pistola, l’ha portata nell’uliveto, l’ha fatta spogliare nuda e dopo l’ha stuprata”) e l’omicidio di Elviro Gratta, detto il Furbo, “un comune balordo che commetteva piccoli reati”, costringono il maresciallo Saccia (coadiuvato dal brigadiere Manetti) ad avviare un’indagine lunga e complessa che lo condurrà lontano da Taranto. Il passo che segue costituisce l’inizio del primo capitolo.
“Erano le sette e dieci di lunedì mattina dell’ultima settimana di luglio. Fernando Lellini era nelle sue campagne, nella zona di Sovito Quarto, a controllare la fioritura degli ulivi. Gli sbocciò un sorriso nel notare delle minuscole olive su alcuni rami di una pianta, ma aggrottò la fronte, quando si accorse di un qualcosa nell’erba bassa, a una sessantina di metri da lui. Gli sembrava fosse una persona che dormiva. Si incamminò, man mano che si avvicinava, aguzzò la vista e notò che si trattava del corpo di una donna, privo di sensi, completamente nudo e con il viso ferito. Appena la riconobbe, gli si gelò il sangue e gridò: “Elisabe’! Chi è stato a farti questo. Elisabe’!”. Si inginocchiò accanto alla ragazza, controllò se respirasse ancora e, alzando gli occhi al cielo, ringraziò il Signore. Si alzò di scatto e corse verso la sua automobile, prese la coperta e la giacca da lavoro sul sedile posteriore, il cellulare dal portaoggetti e ritornò di corsa da Elisabetta. Dopo aver coperto il corpo e appoggiato la testa della ragazza sulla giacca arrotolata, compose il numero dell’ospedale, ma si bloccò nell’ascoltare la voce della ventenne che bisbigliava: “Aiutami Fernando. Aiutami, ti prego”, poi accostò il capo e le si riempirono gli occhi di lacrime. “Sta’ tranquilla Elisabe’. Sta’ tranquilla. Sto chiamando l’autoambulanza”, la rassicurò mentre le accarezzava la testa. Finì di parlare con il pronto soccorso, poi telefonò ai carabinieri, subito dopo alla moglie e l’avvertì che doveva saltare l’appuntamento delle otto con il dottore e aggiunse: “Telefona a mio cugino Salvatore, digli di veni’ subito al mio uliveto, che ho trovato la figlia, sta messa male, ho chiamato già l’autoambulanza e i carabinieri”.
Beppe Briganti, La rosa violata, Roma, Bibliotheka 2017
a cura di Francesco Ricci