La contemporaneità ama i racconti e ama le novelle, come ci ricordano i libri di Luis Sepulveda, di David Foster Wallace, di Antonio Tabucchi, tre autori a me estremamente cari. La percezione di vivere in un mondo frantumato e frammentario, sotto un cielo vuoto (Dio è assente), senza il conforto della fede in un universo di valori fondati e condivisi, all’interno di società sempre più evolute e, allo stesso tempo, sempre più incapaci di accordare importanza ai legami umani (perché il progresso, come ben sapeva Pasolini, non coincide con lo sviluppo), tutto ciò finisce col fare della raccolta di narrazioni brevi, irrelate e indipendenti (tematicamente) l’una dall’altra, la forma che riesce a dare meglio conto dell’assoluta mancanza di certezze e di punti di riferimento dell’uomo del nuovo millennio.
Un uomo che è chiamato quotidianamente a fare esperienza della solitudine e del vuoto: la solitudine di chi tocca con mano la superficialità di ogni rapporto familiare e sociale, il vuoto di chi, presto o tardi, comprende che la propria esistenza è stata tutta sbagliata, sprecata, non vissuta. E’ quanto avviene anche in “Novelle per il Terzo Millennio” di Bruno Alfonsi, che costituiscono una riuscitissima rappresentazione della miseria, tanto materiale quanto spirituale, che caratterizza – quasi definisce – uomini e donne delle nostre città: per loro non c’è salvezza. Gli abitanti delle nostre moderne Malebolge (l’Inferno della Modernità), infatti, si trovano stretti tra due forze opposte. Da un lato, abbiamo la Natura, che si esprime essenzialmente come Eros; dall’altro, abbiamo la Civiltà, che si esprime come connessione compulsiva alla Rete.
Ma non possono certo bastare un amplesso (desiderato, temuto, cercato) o l’assumere un’identità virtuale dietro allo schermo di un computer, ad alleviare il peso di giorni vuoti e inutili, schiacciati su un arido e dispotico presente (manca completamente, infatti, ai personaggi di questi nove racconti, lo sguardo sul futuro, mentre il passato, quando ritorna, come in “Noblesse Oblige”, è solamente per far male, non certo per confortare). Il passo che segue, tratto dalla novella “Il Professor Fausto”, consente di cogliere bene anche lo stile di scrittura di Alfonsi, una scrittura che coniuga velocità e chiarezza a una carica espressionistica, deformante, tra Giovenale e un certo Pirandello.
“Si guardava allo specchio tutte le mattine ed ogni volta si vedeva più vecchio, come se 24 ore significassero per lui 24 mesi. La stempiatura e la piazzola nucale si facevano più evidenti ogni giorno ed i pochi peli che che aveva sul petto si tingevano rapidamente di bianco. In torno agli occhi zampacce di gallina rimarcavano il suo veloce declino, mentre una orribile couperose sulle guance gli dava una parvenza da avvinazzato veramente repellente. Eppure il suo consumo quotidiano di alcool (a suo insindacabile giudizio) non era tale da giustificare tale disfacimento: mezzo litro di vino nei due pasti e tre dita di whisky la sera non erano certamente un eccesso. I denti erano giallastri da fumatore ( da quanto non andava dal dentista per una bella pulizia dal tartaro? Il trapano, quello no che non lo sopportava e tantomeno sopportava il dentista – suo ex compagno di liceo – che ogni volta lo insultava e lo trattava da cacasotto, mentre lui si rannicchiava e scendeva sempre più giù nella poltrona delle torture). Era convinto di fumare meno di un pacchetto al giorno, eppure il catarro e la bocca impastata del mattino denunciavano quantità ben superiori. Non era certo un salutista e non aveva mai voluto credere che fritti ed intingoli potessero avere un qualsiasi effetto seriamente deteriorante sul fisico, tuttavia l’alito generalmente pesante, il cerchio alla testa e quel senso di pesantezza e spossatezza che caratterizzavano i suoi risvegli, avrebbero dovuto essere un buon campanello di allarme per metterlo in guardia dai suoi stravizi enogastronomici”
a cura di Francesco Ricci
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