Il romanzo è oggigiorno il genere letterario di maggior successo, in Italia come nel resto del mondo. Non solo, ma nonostante la sua giovane età – assumendo come termini di confronto l’epica, il teatro tragico e comico, la lirica – il romanzo appare un continente ormai percorso, visitato, perlustrato in ogni angolo e in ogni anfratto. Non a caso il Postmoderno, il cui arrivo in Italia viene a coincidere con l’uscita di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino e de “Il nome della rosa” di Eco, oltre che con la gestazione, interrotta dalla morte prematura, di “Petrolio” di Pasolini, fa propria e difende l’idea della scrittura come riscrittura, dell’invenzione letteraria come pastiche e come collage, i cui materiali sono attinti dalle opere della tradizione, ma anche dall’ambito cinematografico, musicale, da quello della pubblicità e dei fumetti.
E un romanzo postmoderno è anche “L’ultima trasmissione della notte” di Daniele Magrini (che l’editore Betti ha ora ristampato assieme a un noir “Unghie assassine”, ambientato nella Shangai di Expo 2010). Fondendo microstoria, le vicende sentimentali del protagonista, Gio Martini, un conduttore radiofonico di successo, e macrostoria, il trionfo nelle elezioni presidenziali americane del novembre 2008 di Barack Obama, Magrini ci offre un affresco degli anni Ottanta e Novanta, gli anni di quella che Eco chiamò la “neotelevisione”, del disimpegno politico, dell’edonismo sfrenato, ma anche dell’affermarsi di gruppi e tendenze musicali di assoluto valore.
Canzoni e poesie (Gibran ed Erri De Luca, ad esempio), citazioni tratte da film e romanzi, vengono sapientemente recuperate, collocate nella pagina accanto a frammenti dell’esperienza autobiografica dell’autore, rese omogenee grazie all’impiego costante di una lingua vicina alla normalità dell’uso e di un ritmo privo di pause e di lentezza. Un po’ alla volta la radio nella quale Gio Martini è cresciuto, come uomo e come professionista del settore, e dove si accinge a tenere la sua ultima trasmissione notturna, si trasforma così, attraverso il recupero memoriale del passato, nel consuntivo di un’esistenza privata e nel giudizio sul mondo uscito dalla Guerra Fredda, un mondo nel quale è sempre più difficile orientarsi e dove ogni entusiasmo, individuale e collettivo, è destinato ad avere vita breve.
Quello che segue è l’incipit del romanzo, che fonde felicemente tonalità lieve e tonalità grave.
“Di notte, quando non riusciva a dormire – e ormai non era più un’eccezione – si scopriva a riflettere, con una continuazione quasi ossessiva, su tre questioni di fondo della sua vita, alcune di recente maturazione, altre che lo accompagnavano dalla nascita. Una in particolare. Primo quesito della notte. Perché suo padre e sua madre, buonanime entrambe ormai da tempo, lo avessero voluto beneficiare di un nome di quella portata. Antico, ingombrante, difficile da presentare e da sopportare. E se lo ripeteva a denti stretti: “Meriggio, Meriggio, mi chiamo Meriggio. Piacere, Meriggio Martini” sibilava replicando come litanie tante scenette vissute. “Piacere, Meriggio Martini”. E l’altro o l’altra, che rispondeva sempre: “Come?”. Lui, sorridente, solitamente un po’ imbarazzato, a sua volta ribatteva a memoria: “Meriggio, Meriggio, a mio padre piaceva. Mia madre non ebbe forza di obiettare, visto che mi aveva partorito in casa e pesavo quattro chili e mezzo”. Meriggio Martini, sempre vittima delle prese in giro in classe, in altri tempi si era provato a chiedere al suo babbo, che significato avesse il suo nome. Lo aveva fatto quando aveva circa 11 anni, tre anni prima che il babbo morisse, in una sera d’estate calda, assillata dal canto delle cicale. Il babbo era seduto sulla sommità della collinetta piena di viti, appena fuori Vagliagli, dove il Chianti è ancora ruspante. La loro casa sembrava prendere fuoco nel tramonto del sole che non si arrendeva. Il babbo si asciugava il sudore, non tirava un alito di vento. Gli sbucò alle spalle all’improvviso e chiese a voce alta: “Babbo, perché mi chiamo Meriggio?”. L’altro neppure si voltò, continuando a guardare i filari: “Perché sì”. Poi, dopo qualche minuto, mentre Meriggio già non ci pensava più, aggiunse: “Questo è il meriggio, la fine della giornata di lavoro, la fine della fatica. E io voglio che tu nella vita non fatichi come ho fatto io, che non abbia queste mani così, come le ho io”. Bestemmiò, ma come fanno i contadini toscani, senza astio”.
a cura di Francesco Ricci
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