Due sono gli elementi formali che quasi da soli s’impongono all’attenzione del lettore di “Viaggi dentro”, la silloge poetica di Donatella Coli: la frequenza dell’anafora, l’impiego di una sintassi lineare. Tra i numerosi esempi che è possibile fare, segnalo per l’anafora: “Vinsi con te che non volevi andare. / Vinsi con te quella sera”, “Non volevo per te / parole di maniera / Non volevo per te / sorrisi di gaia compiacenza / Non volevo per te vocette da bambino”, “Nella nostra testa di madri siete nati / come in un utero fuori posto. / Nella nostra testa vi abbiamo portato”. Come esempi relativi alla sintassi, invece, riporto: “Mi ricordo / una capanna di novena / nella notte d’altri tempi”, “La risacca abbandona frammenti di conchiglie”, “I rumori dell’alba hanno dissolto i fantasmi della notte”. Ora, l’azione congiunta dell’anafora e della costruzione sintattica semplice produce un effetto di fissità e di ordine.
Di fissità, dal momento che la ripetizione della stessa parola o delle stesse parole all’inizio di versi in sequenza sembra arrestare lo scorrere, sembra sacrificare il procedere (il dire qualcosa di nuovo) al ritornare su stesso del dettato poetico (il ridire qualcosa che già si è detto). Di ordine, poiché la costruzione del verso riproduce da vicino – talora imita – quella che è la costruzione consueta e corretta della frase nella lingua italiana (soggetto, predicato, complementi), evitando quasi del tutto inversioni e iperbati. Ma questa necessità di “ripetere” e di “ordinare”, così marcata in Donatella Coli, cosa lascia intravvedere a livello psicologico? Fondamentalmente, a me pare, una profonda (petrarchesca) inquietudine dinanzi al divenire, dinanzi alla labilità di tutto ciò che esiste. Un’inquietudine, questa, che facilmente può anche colorarsi di terrore e di angoscia, se la mente non riesce a ravvisare, in questo continuo vanire e svanire di cose e persone, né un senso né una direzione: insomma, se distacco, dolore, lutto, perdita devono essere, che almeno siano giustificati e spiegabili.
Da qui si origina la risposta, psicologicamente difensiva e poeticamente feconda di esiti notevoli, di Donatella Coli. I ricordi (di un incontro, un amore, un volto bambino o adolescente, un lembo di terra, una stagione della vita, un gesto) riemergono improvvisi dal fondo della memoria, si accampano al centro della pagina bianca, vengono ricondotti a misura, nitore, trasparenza, quasi che il rifiuto di ogni oscurità (ad esempio, di matrice ermetica e simbolista) sia, sul piano dello stile, l’espressione del rifiuto, sul piano ideologico, dell’esistere concepito in termini di caos e di ateleologia. L’esito ultimo è una raccolta che, senza rinunciare all’originalità, pare felicemente combinare Pascoli, a livello tematico, con Antonia Pozzi, a livello di stile. La poesia che segue è tratta dalla seconda sezione, intitolata “Viaggio nei sogni”, del libro (le altre quattro sono, in ordine, “Viaggio nell’infanzia”, “Viaggio negli affetti”, “Viaggio tra la gente”, “Viaggio nella mia terra”), che accoglie testi caratterizzati dalla lunghezza del verso libero e dall’impressionismo descrittivo. “A impreziosire “Viaggi dentro” concorre l’introduzione scritta dal poeta Luciano Valentini.
Dio ti prego non chiamarmi
quando il tiglio inebria l’aria di profumo nella brezza della sera
e il gelsomino forte e oleoso invade il respiro,
quando il sole sembra non tramontare mai
e il cielo rimane chiaro sfidando la luna,
quando l’aurora si affaccia presto sorprendendo la notte
e la rondine, tornata, riafferma col suo grido la vita.
Chiamami quando il cielo piange dalle nuvole grigie
mentre la lunga notte rattrista i ricordi.
Donatella Coli, Viaggi dentro, Effigi, Arcidosso 2020
a cura di Francesco Ricci