Arriva nelle sale la nuova opera del giovane regista canadese Xavier Dolan, astro nascente del cinema mondiale. Giada Infante ha visto il film per noi
Sarà pure troppo da intellettuali vecchi e prevenuti, ma di Juste la fin du monde– E’ solo la fine del mondo, film franco-canadese della Lucky Red, Grand Prix speciale della Giuria a Cannes nel 2016, eravamo troppo curiose e siamo andate quasi subito a vedere di cosa si trattava….
Cominciamo dal regista, perché ci viene spontaneo chiederci: cosa ha combinato adesso il giovanissimo Xavier Dolan?
Ventisette anni, canadese, gay, Xavier Dolan è uno dei registi più discussi e amati attualmente in circolazione. E questo è già il suo sesto lungometraggio… premiatissimo a Cannes fin dai tempi di J’Ai Tué Ma Mère nel 2009, ignorato però a Venezia per l’unica volta in concorso con Tom À La Ferme nel 2013.
È un regista che ha deciso di adattare per il cinema questa difficile pièce di Jean-Luc Lagarce (scrittore francese morto di AIDS…). Pièce sicuramente non semplice adattare, da teatro spigoloso d’Oltralpe, operazione eseguita insieme all’attrice-amica Anne Dorval, già protagonista del suo maggiore successo del 2014 Mommy, film “eccessivo” su una madre single eccessiva e incapace di gestire la propria vita…
Cosa è uscito fuori dalla pièce allora? Il soggetto è subito chiaro: il ritorno del figliol prodigo Louis, sensibile, intelligente, più bravo degli altri, scrittore di successo, omosessuale, con il volto affascinante e ruvido di Gaspar Ulliel, che torna dalla sua famiglia soltanto per annunciare la sua morte imminente. Come farà Louis a parlare con delle persone quasi estranee che non vede da dodici anni? Questo è il cuore del film….
Louis si troverà di fronte le vecchie dinamiche familiari che aveva sperato di dimenticare: una madre ingombrante (Nathalie Baye), un fratello maggiore aggressivo con un evidente complesso d’inferiorità (Vincent Cassel), una sorella minore con cui non ha mai realmente comunicato (Léa Seydoux) e una cognata (Marion Cotillard), vittima del pessimo carattere del marito, che conoscerà solo in quell’occasione. Emozioni forti, estreme, come è normale che ci si aspetti da un ritorno improvviso per annunciare la propria fine imminente. I parenti improvvisamente e quasi violentemente si trovano rimessi tutti insieme, ma con un’ incomunicabilità che regnava e regna anche dopo un annuncio così impetuoso.
Sono stupendi i primi piani ottenuti dal regista che praticamente incolla la macchina da presa al volto dei suoi attori, (tutti francesi…), ai loro occhi, per cercare eventuali tracce di tenerezza in un dolore potente e allo stesso tempo caricare emotivamente il suo film e noi spettatori… E in attesa della tempesta dell’atto finale, dove veniamo trascinati nel cuore di questa famiglia non proprio abituata ad un’emozione così forte, scopriamo il cuore dell’opera.
Di litigata in litigata, discussioni, litigi, nevrosi folli, riemergono vecchi conflitti sopiti soprattutto con il fratello, un Vincent Cassel, per me bellissimo e in stato di grazia, il personaggio più vero, l’unico senza maschere, che non ce la fa ad adeguarsi, con il vestito della “felicità” ad un pranzo cerimonioso un po’ troppo surreale. Un personaggio denso di dolore, rabbia, con le lacrime agli occhi, l’unico insomma che riesce a vedere oltre l’apparenza. E capirà che Louis tra poco distruggerà di dolore la sua famiglia.
Tutto ruota intorno a Louis e quello che deve dire, starà per dire, non riesce subito a dire, bloccato, e che appare allo spettatore quasi come una divinità, un eroe che torna per l’ultima volta dai suoi e trova tutto mutato, come Ulisse… È solo la fine del mondo è un film a tratti anche senza suoni, con immagini fotografiche quasi “congelate”. Il cinema “classico” dell’arte dei volti insomma, rispetto al teatro, e ci fa emozionare con un piano-sequenza stupendo: sottofondo di archi e Suzanne, la sorella minore eccessiva e “sballata”, guarda Louis con dolcezza, lui china la testa, lei la rialza e da Louis emerge uno sguardo di tristezza sterminata…. e subito lei capisce. Sono sfumature, movimenti seguiti delicatamente dalla macchina e poi “sospesi” per noi spettatori. Tutto è negli sguardi, nei volti dei protagonisti.
E scusate, ma questo per me è anche un film natalizio, molto natalizio perché vedere Louis che accarezza con sensualità gli oggetti nella sua vecchia cameretta, flashback di un amore che fu, o seguire la sequenza simbolica dell’orologio a cucù, metafora del tempo che scorre inesorabile verso la fine, è semplicemente emozionante. Come il Natale appunto, perché è un film di sentimenti forti: la vergogna, le parole non dette, il dolore e i risentimenti per i vuoti che Louis lascerà… Louis viene travolto da tutte le immagini che lo riportano alla sua adolescenza, sequenze che irrompono nel film in modo travolgente, accompagnate da una colonna sonora intensa. Non è un film noioso, anzi è un film dove la tensione e il livello emotivo tendono ad aumentare progressivamente grazie alla maestria dell’autore che trattiene al momento giusto gli attori, non facendo entrare eventuali orpelli retorici che l’avrebbero reso un melodramma puro. Un film molto natalizio anche perché il regista, alla fine, ci fa volere bene a questo artista di successo che sembra perso nel suo Olimpo privato: “ rimpiango il tempo perduto, che abbiamo perduto, che ho perduto” dice Louis. Nell’atto finale Cassel tenta di non far andare via il fratello, come per prendere su di sé la responsabilità della sua morte… E il film è tutto lì: l’attesa è finita, il cucù canta l’ora, la vita è andata…
Giada Infante