La vita molte volte si lascia pensare al modo congiuntivo. Seduti da soli nella nostra stanza o in compagnia degli amici attorno a un tavolino, il pensiero viene trascinato all’improvviso – senza un apparente perché – sulle tracce che conducono ad anni lontani, quando l’esistenza – la nostra, quella degli altri – avrebbe potuto imboccare un’altra direzione. A quel punto, ogni idea si converte in un’ipotesi, ogni sentimento si fa rimpianto o rimorso: “Se io quell’occasione l’avessi afferrata”, “Se Giulia avesse trovato il coraggio di partire”, “Se i nostri sguardi non si fossero incrociati tra gli scaffali polverosi di quella libreria”. Ma può esserci di peggio. Può esserci qualcosa d’infinitamente peggiore del pensare a quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Fummo paurosi, fummo leggeri, fummo rassegnati. E le cose andarono come sono andate a finire. Questo non è un bel pensare, perché avvelena e rattrista i giorni e le notti. Eppure, c’è di peggio. Ed è il sospetto di avere sulla coscienza la morte di una persona. Morte interiore, morte fisica. What does it matter? Non l’abbiamo uccisa. Non l’abbiamo indotta a uccidersi. Niente di tutto questo. Nessuna accusa, nessun pubblico ministero, nessun processo. In fondo – si dice così, no? – è la vita che decide, non si lascia governare né disciplinare. Nessun colpevole, nessun responsabile. Veniamo tutti assolti. Però, se quella sera io avessi usato un tono di voce diverso, se io quella persona avessi cercato di trattenerla, se non le avessi rovesciato addosso tutta la mia rabbia? Forse, alla guida della sua auto, sarebbe stata più tranquilla, perfino più vigile, di sicuro più attenta. Forse lei sarebbe ancora viva e io non sarei qui, nella mia stanza o con i miei amici (apparentemente sorrido), a lasciarmi consumare da questi pensieri. Ed è da un incidente d’auto, nel quale trova la morte una ragazza, che prende avvio anche il primo romanzo della senese Elisa Mariotti, “Occhi negli occhi”. Un titolo, questo, che da un lato suggerisce la centralità che possiede nel libro il sentimento d’amore – che l’intera tradizione occidentale, dalla lirica occitanica e siciliana in poi, associa al senso della vista –, dall’altro, rimanda all’introspezione/ inchiesta (gli occhi, dunque, in questa seconda accezione di significato, come metafora della mente, dell’intelletto), che la voce narrante (che coincide con la sorella maggiore della vittima)conduce, pervenendo a una migliore conoscenza sia di sé sia delle persone alle quali è legata da vincoli d’affetto e di sangue. Il passo che segue costituisce l’incipit del romanzo, che combina, senza produrre alcun attrito, la forma del monologo con l’impianto diaristico.
“Cara Sara, è già passato un mese da quando non ci sei più ed io, per la prima volta, mi trovo nel tuo appartamento da sola, cercando di tenere occupata la mente mentre metto via le tue cose. La casa è buia, fredda e triste. Come riuscire a non pensare a te? A mia sorella più piccola che, per uno stupido incidente d’auto, se n’è andata e mi ha lasciato sola con il mio dolore. Perché sei stata così egoista? Perché ancora una volta non hai pensato al male che facevi a chi rimaneva? Lo sai, ti ho sempre accusata di pensare solo a te stessa, a quelli che erano i tuoi desideri e di mettere tutto il resto in secondo piano. È vero che quando una persona muore il male più grande è sicuramente il suo: insomma, eri giovane, bella, con un’ottima carriera davanti…e te ne sei andata veramente troppo presto. Hai mai pensato però a chi rimane? Cosa può fare chi rimane? Bè, può solo vivere nel ricordo della persona che non c’è più. La cosa che però mi fa più male è il modo in cui ci siamo lasciate: sorelle di sangue ma non di fatto. Solo ora che non ci sei più mi rendo conto del tempo che abbiamo sprecato, del male che, a causa del nostro bell’orgoglio, ci siamo fatte a vicenda. Ma era necessario che succedesse tutto questo per arrivare a capire questa ovvietà che ormai però ha ben poco senso?”.
Elisa Mariotti, Occhi negli occhi, Europa Edizioni, Roma 2016