Per gli amanti della letteratura ottocentesca (inglese, francese, italiana) il libro che Mario Praz dette alle stampe quasi un secolo fa, nel 1930, “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, continua a costituire uno dei vertici della critica tematica. A chi, invece, poco conosce dell’opera di Byron, Baudelaire, Sade, Flaubert, Wilde, d’Annunzio, Huysmans, il titolo del saggio in questione pare possedere una valenza metastorica, sembra prescindere, cioè, dal legame che unisce determinate idee, determinati soggetti, a un’epoca ben precisa (il XIX secolo), mirabilmente indagata dal più grande dei nostri anglisti.
La carne (il peccato, l’incontinenza), la morte (la caducità, la fragilità), il diavolo (il nemico, colui che divide), infatti, sono già presenti agli albori della civiltà greca – là dove affondano le radici della cultura occidentale – come prova a sufficienza l’Iliade, che mette in scena la guerra tra due eserciti rivali, i greci e i troiani, formati da “mortali” (“brotoi” li chiama Omero) e in lotta fra di loro a causa del rapimento di una donna, Elena, la moglie di Menelao, ad opera di Paride, che si era innamorato di lei. Proprio alla figura del nemico (questo è il significato della parola “satana” nei libri più antichi della Bibbia), al fascino seducente delle tentazioni, alla vittoria (di Dio), alla sconfitta (del Maligno), alla debolezza della carne e alla diade peccato-vizio, al rapporto tra limite e oltrepassamento del limite, Elisabetta La Vista, laureata in filosofia teoretica e in Scienze Religiose, dedica ora uno studio interessantissimo, “Il ritratto del diavolo”, edito da Cantagalli. Muovendo dalle Sacre Scritture, soffermandosi sull’epoca medievale, confrontandosi col capolavoro di Milton (seconda metà del XVII secolo), “Il Paradiso perduto”, e col romanzo epistolare di C.S. Lewis (prima metà del XX secolo), “Le lettere di Berlicche”, La Vista indaga alcuni degli snodi fondamentali relativi al nesso male-Diavolo e, soprattutto, all’influsso esercitato sull’immaginario iconografico (si pensi al “Giudizio Universale” di Giotto) e cultura dalla figura di Satana. Il passo che segue, tratto dall’introduzione a firma della stessa autrice, costituisce anche un esempio dello stile chiaro e scorrevole che contraddistingue il saggio.
“Il presente saggio si propone di analizzare, nella sua genesi e nella sua condizione storica, il concetto di Maligno, identificato fin dai tempi più remoti nel Diavolo, figura che è stata oggetto di studio da parte di teologi e biblisti, ma che ha anche esercitato un potente fascino su artisti, scrittori e poeti vissuti nelle diverse epoche. Non solo il pensiero cristiano si è da sempre confrontato con il problema del male, ma anche le altre religioni se ne sono in vario modo occupate, cercando di dare una risposta alla ben nota ed assai difficile aporia: “come può un Dio buono, onnipotente e onnisciente creare un mondo cattivo?”. Tale contraddizione ha portato a ipotizzare, ad esempio, forme di dualismo religioso che, in generale, sostiene l’esistenza di due principi universali coeterni e co-creatori della realtà (si veda zoroastrismo, manicheismo…), ovvero un Principio del Bene e un Principio del Male all’origine del mondo. Fenomenologicamente parlando, il male comprende le catastrofi naturali (terremoti, inondazioni, ecc.), le patologie degli esseri viventi (malattia, morte), le deficienze morali (peccati, tentazioni), i disordini sociali (violenze, guerre), Di fronte a tutto ciò l’uomo ha sempre esercitato la sua facoltà di pensare, per capirne il significato e l’origine e per trovare soluzioni atte a limitarne la sua forza distruttrice: ancora oggi l’onnipresenza del male, in tutte le sue articolazioni, costituisce una sfida alla teologia ed alla filosofia”.
a cura di Francesco Ricci
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