“La chiave di casa”, il libro postumo di Enrico Giannelli, si presenta come un viaggio nella vita di un uomo, l’autore, e di una città, Siena. Ciò significa che il tempo è più importante dello spazio, sebbene le due dimensioni, come spesso accade, siano strettamente intrecciate fra di loro. Dico questo perché è proprio la percezione del trascorrere del tempo e della sua azione di trasformazione incessante (di una persona, di una comunità urbana) a comportare una conseguenza rilevante anche sul piano dello stile. Infatti, ne “La chiave di casa”, che raccoglie e riunisce due precedenti opere in versi di Enrico Giannelli – “Dolce idioma amato ostello” (1986) e “Gente vana (2009) – è evidente una forte vena narrativa.
Penso, in particolare, alla serie di sonetti riuniti sotto il titolo di “Montaperti”, al dittico “Santa Caterina” e “San Bernardino”, al trittico “La telefonata”, “La malattia del Palio”, “16 agosto”. È come se il singolo componimento, pur dotato di una propria autonomia di significato, esigesse, per venire compiutamente compreso, di venire letto accanto al testo che lo segue o che lo precede. Ad esempio, la figura di San Bernardino (“Che anima bella fu san Bernardino!”) acquista il giusto rilievo solamente se leggiamo il sonetto a lui dedicato insieme a quello che nella raccolta viene immediatamente prima, al centro del quale compare Santa Caterina. Ed è lo stesso autore a invitare il lettore a operare tale accostamento, scrivendo nelle due terzine di “San Bernardino”: “Richiamò in cielo Santa Caterina. / Quando la grande Santa uscì di scena, / lui, tanto per capirsi, era in panchina. // Il Padreterno si dev’esse’ detto: / Pe’ Santi ma che c’è meglio di Siena? / Una la levo e un altro ce lo metto”. Attraverso questo “debordare” della singola poesia, attraverso questo “smarginarsi” del testo, la misura canonica del sonetto (formato, come è noto, da quattordici endecasillabi) viene superata, viene piegata in direzione di un canto che può distendersi più ampiamente, accogliendo, al proprio interno, il confronto tra la Siena del passato e la Siena del presente (ma anche tra il poeta giovane e il poeta maturo).
Ora, la sinossi di queste due stagioni della vita della città è condotta sia per addizione che per sottrazione. Da un lato, infatti, la Siena odierna ha qualcosa in più rispetto alla Siena di ieri, che inerisce all’ambito del progresso della scienza e della tecnica, di cui danno conto già i semplici titoli di alcune poesie, come “Serate televisive”, “Il manager”, “L’intelligenza artificiale”, “Internet”. Dall’altro, ha qualcosa in meno, che non rimanda tanto alla sfera materiale dell’esistenza, quanto alla sua dimensione spirituale, sentimentale. È una mentalità, un modo di porsi dinanzi al mondo delle cose e degli uomini, un’atmosfera che un tempo impregnava di sé il rione e si faceva battuta, proverbio, adagio popolare, atmosfera di cui oggi rischia di andare perduto perfino il ricordo. Ed è proprio per questo che è importante scrivere, per mettere in salvo ciò che un giorno è stato e ha guidato i passi di chi ebbe in sorte il dono di vivere nella città del Palio. Il volume è arricchito, oltre che da quattro brevi testi in prosa (che confermano una volta di più il possesso, da parte di Giannelli, della stoffa del narratore), dalla toccante introduzione scritta dalla figlia di Enrico, Costanza, e dai disegni del fratello, Emilio Giannelli. Quello che segue è il sonetto che apre la raccolta, intitolato “Caro lettore”.
“Caro lettore, ‘un so quel che t’aspetti,
ma nella vita, tiello bene a mente,
è sempre meglio ’unn’aspettassi niente.
Figuriamoci poi dai mi’ sonetti.
Io comunque ti so’ riconoscente
anche se leggi questo e dopo smetti.
Se poi vòi seguita’, quando l’hai letti
dirai se so’ colpevole o innocente.
Ma ’un ti scorda’ che tutti a tempo perso
ci s’ha le nostre trappole, è normale.
Io, per esempio, scrivo qualche verso.
Te invece, che ne so, leggi il giornale.
Dei gusti, dice il detto, ‘un si discute.
Tanto quello che conta è la salute”
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