Enzo Puglisi, Il profumo del basilico riccio

“Il profumo del basilico riccio” di Enzo Puglisi è tante cose insieme. È un romanzo familiare, è un romanzo di formazione, è un romanzo di memorie, è un romanzo sociale. Le vicende del protagonista e voce narrante, Vincenzo, che lascia la Lombardia, dove risiede, per raggiungere la Sicilia, terra di origine dei genitori, sono raccontate dall’autore in una duplice prospettiva. Da un lato, infatti, il percorso lungo la direttrice Nord-Sud si configura a tutti gli effetti come un percorso di formazione per Vincenzo. Se infatti – fu questa la convinzione profonda di Cesare Pavese – occorre, per maturare, abbandonare a un certo punto il luogo natale, è altrettanto vero che senza radici e radicamento l’esistenza dell’uomo è inevitabilmente un’esistenza dimidiata.

Chi, come il protagonista del “Profumo del basilico riccio”, ha visto strappate le proprie radici, per delle ragioni che il lettore scopre soltanto al termine del romanzo, non può di conseguenza fare altro che tentare di riappropriarsene. Come? Immergendosi nei profumi, nei suoni, nei riti, nei racconti orali, nella vita della sua terra d’origine, in questo caso la Sicilia. Solamente a questo punto la formazione umana e sentimentale di Vincenzo può dirsi compiuta, solamente a questo punto tornare in Lombardia ha un senso. Dall’altro lato, però, il percorso che il personaggio principale compie diviene l’occasione per un’indagine “sociale” dell’isola e, in particolare, della connivenza tra potere politico e potere mafioso, che finisce col condizionare pesantemente tanto l’economia quanto i singoli destini personali, privati di slancio, di libertà, di serenità. Un’ultima osservazione concerne il piano linguistico del romanzo, che vede il coesistere di lingua italiana e di dialetto siciliano, impiegato tanto in funzione mimetico-realistica quanto evocativo-musicale: ci sono delle verità e dei modi di guardare il mondo che possono venire espressi solamente attraverso quella lingua primigenia e innocente che è il dialetto. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale, “Risvegli (A Svigghia)”.

“La luce magica del primo mattino filtrava nella stanza dalle persiane un po’ sconnesse e mi faceva riaprire gli occhi curiosando attorno in uno stato di trance e sorpresa. Ancora assonnato scrutavo il locale dove dormivo, un salottino riadattato per l’occasione. Era come stare in una camerata della colonia che serviva a tutti i cugini maschi, me compreso. Nelle stagioni estive si dormiva tutti insieme per risparmiare spazio utile alla vita sociale della famiglia. Invece, ai miei genitori, era riservata per devozione d’ospitalità una delle tante camere in fondo al lungo corridoio di quella strana casa di nonna Serafina, detta Serafì. La mia unica cugina e sorella erano ovviamente alloggiate in stanze a parre, come gli zii, mentre la nonna dormiva nel sacrario della vecchia camera da letto dalle pareti di raso verde chiaro. L’interno era arredato con mobili scuri di fine Ottocento e sopralzi intarsiati. Mille soprammobili e fotografie di parenti erano sparsi sulla ribaltina in stile retrò. Sopra la toeletta un vecchio specchio ovale, messo obliquamente, mostrava tutta la sua età e diffondeva un riflesso di luce proveniente dalla finestra posta frontalmente. Appariva stanco di rispecchiare solo a se stesso anni fuggiti chissà dove. Il ritratto del nonno in bianco e nero, sovrastava la parete della testiera del letto-. Il volto rotondo del nonno Vincenzo, velato da un ritocco color rosso sulle labbra, com’era in uso all’epoca, si stagliava maestoso al centro”

 

Enzo Puglisi, Il profumo del basilico riccio, extempora, Siena 2024

A cura di Francesco Ricci