Pensare alla donna è pensare alla sofferenza. Non, però, alla sofferenza che lei provoca andandosene e rendendo la vita di chi resta una perenne e incurabile nostalgia. E neppure la sofferenza che, quasi ontologicamente, le appartiene, in quanto creatura e, poiché creatura, inevitabilmente partecipe della fragilità e della labilità. Anche questa sofferenza, certo, ci parla della donna, così come anche la lontananza, il distacco, la “vanitas”, ritornano frequentemente in letteratura, sia che la figura femminile costituisca l’oggetto sia che costituisca il soggetto della scrittura.
Ma non è di questa sofferenza che qui si parla, non è di questo tipo di sofferenza che intendo parlare. Perché il dolore legato all’impossibilità o alla fine di un amore è dell’uomo non meno che della donna; perché l’essere “creature di un giorno” e “sogno di un’ombra”, come già cantava la saggezza degli antichi, è retaggio di tutto ciò che nasce e muore sotto questo cielo. No, la sofferenza (dell’anima), il dolore (del corpo) sono intimamente connessi col pensiero della donna anche sotto un altro aspetto e su questo terreno la lontananza dal genere maschile appare siderale. C’è un costo, infatti, che la donna ha pagato e continua a pagare non già perché “essere amante” ed “essere vivente”, piuttosto in quanto semplicemente donna e, poiché donna, ritenuta inferiore al maschio.
E dove la cultura relega ai margini e la società legittima, anno dopo anno, tale emarginazione, è facile che la violenza contro chi si trova in una posizione subalterna non solo esploda, ma metta radici, si faccia prassi quotidiana, venga, ancor peggio, percepita come un qualcosa di naturale e di legittimo. “Estemporanea 2016” è una bellissima antologia di testi scritti da donne (una quarantina tra racconti e poesie), in versione digitale, scaricabile in formato pdf. La sopraffazione e l’aggressività, vissute, esperite, attraversate, si fanno canto e si fanno invito: parola, cioè, che, lasciata decantare e depurare dalle scorie dello sfogo personale, riesce a parlare a tutte le donne e di tutte le donne; parola che, immune da ogni autocompiacimento o tono da manifesto, ricorda a ogni lettore, a ogni lettrice, che non può mai esserci naufragio definitivo, capace di estinguere completamente l’allegria che è in noi, allegria intesa, alla maniera di Ungaretti, come voglia di ricominciare, di tornare a vivere, di aprire uno spiraglio attraverso il quale ricevere sulla faccia l’aria fresca del domani.
Tra i testi, tutti molto belli, ho scelto una poesia di Alba Corrado, intitolata “Che poi”, asciutta e lucida fenomenologia di un amore malato.
Che poi si siede accanto
in un abbraccio stringe.Fanno male le dita nella carne
impronte che si trasformano in lividi
dalla parte del cuore.Che poi non è tutto questo amore
se le parole uccidono come un coltello
dalla lama tagliente.Se le azioni portano solo dolore
se i baci masticano la pelle
se i denti lasciano i solchi.Che poi…se rimani ferita e dolorante
lacerata e sfatta
ferita e piangente
è amore questo? O solo possesso?Merce avariata
una mela bacata
e l’odio sale…
vuole solo fare male
e liberarsi dall’aguzzino
che in virtù di un principiodettato dalla legge e dal sacramento
di marito
fidanzato o compagno
si crede padrone.
a cura di Francesco Ricci
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