La Resistenza è lontana nel tempo. Tanti, infatti, sono oramai i decenni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, così tanti che se li sommiamo, otteniamo la durata media di una vita umana. La Resistenza, però, rischia di divenire distante anche spazialmente. E quando ciò accade, come l’esperienza insegna, il processo che poco alla volta giunge a compimento è sempre lo stesso: il progressivo passaggio – di ciò che un giorno accadde in un determinato angolo di mondo – dal piano della Storia a quello astratto e atemporale delle idee, dove i colori si confondono, i volti smarriscono i loro lineamenti, la vita non riesce né a riconoscersi né a ritrovarsi. È anche per questa ragione che grandissima appare l’importanza delle manifestazioni (raduni, convegni, celebrazioni) che ogni anno ricordano la guerra combattuta contro gli ex alleati tedeschi e contro gli italiani rimasti fedeli a Mussolini, e della lettura-rilettura di libri, che sono diventati strumenti indispensabili (oltre che bellissimi) per conoscere quella stagione della Storia del nostro Paese (“Il sentiero dei nidi di ragno”, “Uomini e no”, “I piccoli maestri”, “Il partigiano Johnny”, “La casa in collina”).
Sia le prime che la seconda, infatti, servono a mantenere viva la memoria (e il senso) della Resistenza e servono a restituire concretezza a un’esperienza che, per molti dei suoi protagonisti, non fu semplicemente politica, ma anche esistenziale. Una concretezza che è fatta e si nutre di nomi (di battaglia), di volti, di gesti, di inflessioni dialettali, di copricapo, di scarponi, fazzoletti e maglioni di lana, di corsi d’acqua, ponti, vallate, montagne, boscaglie, sentieri. Ogni guerra, infatti, è sempre una guerra combattuta dagli uomini, non dall’Uomo, vale a dire da individui in carne e ossa, unici, irripetibili. È per questo motivo che occorre essere grati, una volta di più, a Francesco Burroni e a Francesco Del Casino, autori rispettivamente delle poesie e delle immagini di “Nel bosco da sempre”, ma anche ad Alessandro Orlandini e Riccardo Bardotti, per le loro puntualissime note storiche. Quella che il lettore rinviene, passo dopo passo, è una geografia a lui familiare, una geografia toscana (specie la Toscana delle terre comprese tra Siena e la Maremma, e tra Siena e Firenze).
Monticiano, Scalvaia, la Val di Merse, la Val d’Elsa, la Montagnola, il Monte Quoio, la città del Palio: anche attraverso questi luoghi si è snodato il cammino, al tempo stesso doloroso ed esaltante, che ha permesso di riconquistare la libertà. E allora il bosco del titolo di questo libro, bello di una bellezza tragica e delicata, dovrà essere inteso prima di tutto come uno dei tanti “nostri” boschi della “nostra” Toscana, che lasciano sui vestiti “un odore di terra e di fango”, che sono fatti “dei lecci, delle querce, dei pioppi”, che hanno “i suoi profumi improvvisi di mentuccia e le more e le albatrelle che a fine estate si fanno cogliere”, che ogni autunno vedono spuntare “le perle rosse dei corbezzoli”. Al tempo stesso, però, il bosco conserva in Francesco Burroni un valore scopertamente allegorico, esprimendo l’amore tenace per la libertà, il quale a volte impone anche la macchia, il nascondersi, lo scomparire, come condizioni indispensabili per riprendere da lì – da quel folto di alberi e di rovi – la lotta contro un potere che la libertà calpesta, che la libertà nega. E un siffatto amore una persona o lo reca in sé o difficilmente può rinvenirlo dentro di sé: ecco perché si è nel bosco e da sempre e per sempre. Il testo che riporto costituisce la prima parte della poesia che dà il titolo all’intera raccolta. Il volume è arricchito dalla prefazione di Noemi Ghetti e dalle postfazioni di Pietro Clemente e Silvia Foschi
“Sotto questo leccio sono stato tante volte
a fare la guardia di notte
con il fucile in mano
di notte da solo
ad ascoltare come un bambino impaurito
i mille suoni del bosco
scricchiolii di rami
voli improvvisi di uccelli
passi di chissà quale animale
e ogni rumore poteva anche essere
quello di un altro uomo
con il cuore diverso dal mio
da questo sentiero ripido
tra rovi e sterpaglie
passavo con i cavalli per portarli a bere
al fiume laggiù in fondo alla vallata
in questa spianata che spunta improvvisa
dall’intrigo dei rami
come una piazza
da un dedalo di stradine di una città medievale
si veniva a volte di notte
ad accendere i fuochi
per segnalare agli aerei alleati il luogo dei lanci
e allora come stelle cadenti
nella notte di san Lorenzo
cadevano dolcemente dal cielo i paracadute
e ci portavano armi, munizioni, esplosivo
e noi ad aspettare felici come bambini
che vedevano cadere dall’alto
caramelle e cioccolate”
Francesco Burroni, Nel bosco da sempre, Effigi, Arcidosso 2021
a cura di Francesco Ricci