“Il ventre di Parigi” di Emile Zola non è certamente, all’interno del vasto ciclo dei “Rougon-Macquart”, il romanzo più famoso e più celebrato. Quando si pensa allo scrittore parigino, infatti, i titoli che ci vengono in mente per primi sono “Germinal”, “Nanà”, “La Bestia umana”, “L’ammazzatoio”, “Il dottor Pascal”. Eppure, “Il ventre di Parigi” è un romanzo che ho caro, perché riesce come pochi altri testi a restituire l’immagine di tutto ciò che concorre a definire la forma di un grande mercato generale (quello delle Halles), con le sue montagne di cibo, gli odori che penetrano un po’ dappertutto, i colori delle merci, i suoni prodotti da operai e negozianti, gli sguardi ora golosi ora vigili degli acquirenti. Mai, come in questo libro, Zola ha messo la propria capacità descrittiva al servizio del gusto e dell’olfatto dei lettori. Ho ripreso in mano l’opera dell’esponente di spicco del Naturalismo francese proprio in questi giorni, dopo avere letto “Quanto Basta.
Bagoga, racconti di vita e cucina”, opera prima di Francesco Fagnani. Infatti, sebbene non sia né un romanzo né un racconto, collocandosi, piuttosto, a metà strada tra il taccuino di appunti e il libro di ricette, “Quanto Basta” è un libro che consente di “sentire” – e non semplicemente di “prefigurarsi” – il piacere che è legato alla buona tavola. Ad esempio, mentre si scorrono gli ingredienti per fare un ottimo coniglio alle Crete Senesi oppure si legge quella che è la preparazione del ragù alla Barrocciaia, l’atmosfera che avvolge il “libellus” dalla prima all’ultima pagina fa sì che il lettore non abbia mai l’impressione di trovarsi davanti a un semplice menù, bensì di essere seduto al tavolo di una trattoria o di un ristorante – magari proprio la Grotta di S.Caterina da Bagoga – con i suoi odori, il suo chiasso, la sua poesia.
E questo perché Fagnani fa precedere la singola ricetta da un breve inquadramento storico, che di un piatto chiarisce l’origine o la ragione del nome, finendo per tracciare l’affresco di un mondo agricolo ormai scomparso, spesso poverissimo, dove nessun cibo veniva buttato e dove l’abilità del cuoco (della cuoca) consentiva di dare da mangiare anche a una famiglia numerosa. Nel passo che segue l’autore ricorda come fin da bambino abbia vissuto il ristorante paterno, il regno, cioè, di Bagoga, come una sua seconda casa.
“Anche io, come tutti i bambini, da piccolo guardavo con ammirazione e orgoglio il lavoro del “babbo”. Il mio babbo è un cuoco (non lo chiamate ‘chef’ che si arrabbia e dice ‘gli chef sono i francesi, noi siamo italiani’). Da bambino lo vedevo nella sua divisa con i pantaloni a quadretti, la giacca bianca e il cappello, come una sorta di super eroe, un mito da imitare. Durante la stagione estiva, quando le scuole erano chiuse, non era difficile che molte mattine le passassi a ristorante. Sì, il ristorante, come lo chiamiamo noi, una sorta di gemello nato nel mio stesso anno. Era, ed è, la nostra casa; qui passiamo la maggior parte del tempo, qui si sono sviluppate e susseguite molte vicende della nostra vita, qui continuiamo a vivere tutti i giorni. Quando, da ragazzo, tornavo da scuola io non andavo a casa, ma piuttosto ‘passavo dal ristorante’, mettevo la cartella in un angolo della sala, dietro al mobile, aspettavo la fine del servizio per mangiare e, se c’erano dei bicchieri da lavare, toccava a me. Come dicevo, capitava spesso che la mattina in estate, una volta svegliati e fatta colazione, mia mamma mi dicesse ‘Oggi si va al ristorante’. Se si riusciva a uscire di casa a un’ora decente (noi abitiamo alle Volte Basse, una decina di chilometri da Siena), verso le 11 eravamo al ristorante”
Francesco Fagnani, Quanto Basta, Siena, Betti, 2016
a cura di Francesco Ricci